Bonsai

Que otros se jacten de las paginas que han escrito; a mi me enorgullecen las que he leido
El lector - Jorge Luis Borges
“Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto”

venerdì 11 luglio 2008

BONSAI

“Et nunc omne tibi stratum silet aequor, et omnes
àdspice, ventosi cecidèrunt mùrmuris aurae.
Hinc adeo media est nobis via; namque sepulcrum
incipit apparère Bianoris.”

Ecloga IX, Virgilio

“Ed ecco ora – ascolta - la pianura tutta distesa tace,
e ogni alito del vento sussurrante – guarda – è caduto.
Da questo punto il nostro cammino è a metà.
Comincia infatti a vedersi il sepolcro di Biànore”

giovedì 10 luglio 2008

Consigli per gli acquisti

L'incompiuta
Non è il titolo di un libro ma è, salvo un caso che racconto poi, la fine che questo mese hanno fatto le mie letture. Non so dire se per il contenuto non invitante dei libri stessi o per una scarsa propensione all'affondo che mi ha inopinatamente assalito tutto ad un tratto in poche settimane, stà di fatto che in giugno ho cominciato a leggere ben 6 libri finendone uno solo. Temo che gli altri cinque torneranno, col segnalibro ancora innestato a triste memoria dei posteri nello scaffale della mia libreria dedicato alle letture “incompiute”.
Torneranno cioè in una sorta di limbo e saranno presto dimenticati, salvo per il fatto, non so se consolatorio, di trovarsi tutti quanti insieme, l'uno vicino all'altro. Ogni tanto mi assale la tentazione di regalare loro una ulteriore chance e qualche volta è capitato di farne uscire qualcuno (per la verità forse un paio al massimo) da limbo e passarli in qualche altro stato fisico compiuto (paradiso, purgatorio o inferno che fosse).
Elenco e breve spiega:

La deriva
di G.A.Stella e S.Rizzo
due ne hanno scritti e due ne ho provati. Se ne scrivessero un terzo non correrebbero rischi per conto mio. Un'altra volta libro del tipo “piove governo ladro”. E poi smettiamola di sputtanarci e proviamo a dirci cosa faremmo noi se fossimo nelle condizioni di fare qualcosa!

Adios
di Toni Capuozzo
non che non mi sia piaciuto, ma non ce l'ho fatta ad arrivare in fondo per non vedere quello che in realtà era evidente sin dalla prima pagina. Il rimpianto di una perduta stupenda gioventù ed il crollo dell'ideologia.

Riga 26
Piero Camporesi
Il segnalibro è fermo a pagina 22 di 375. Impossibile dire perchè.

Ed infine due libri sulla creatività, il primo che è stato nello scaffale “lista d'attesa” per forse tre o quattro anni non ricordo (ne ricordo perche e come ci è finito) di Hubert Jaoui intitolato



La creatività amore per la vita.

L'altro acquistato in un momento di follia “americana” (quelli che credono che tutto si possa imparare sui manuali pratici) di Roberto Cotroneo dal titolo



Manuale di scrittura creativa.
Il primo, semplicemente inguardabile. Il secondo interrotto per la stizza di aver capito che non potrò mai essere un vero creativo!

Lo solitudine dei numeri primi
di Paolo Giordano
Mondadori
Non è un libro di alta matematica. Il titolo è solo una bella ingegnosa metafora. Al di la di un breve passo nel quale l’autore ne svela appunto il senso, il libro non parla infatti di numeri ma di persone.
Persone speciali, come speciali appunto sono, nell’insieme dei numeri interi, i numeri primi, ovvero quei numeri divisibili solo per se stessi e per uno.
Numeri primi che hanno per i matematici un fascino particolare, un alone di mistero irrisolto. Nella categoria dei numeri primi ce n’è poi una specialissima che è quella dei primi cosiddetti “gemelli” ovvero quelle coppie separate tra loro da un solo numero (ad esempio 11 e 13, 17 e 19, etc etc), vicinissimi cioè l’uno all’altro ma contemporaneamente irrimediabilmente separati tra loro, isolati, soli.
E’ di due persone così che parla questo romanzo, opera prima del 26enne giovane Fisico, Paolo Giordano. La storia della loro vita: lei, Alice, zoppa fin da bambina per un incidente sugli sci, anoressica per incompatibilità col padre; lui Mattia, matematico intelligentissimo, stravolto dai sensi di colpa, fino a diventare autolesionista, perché, dentro di se, sa di essere stato alla fine la causa ultima, pur se indiretta, della scomparsa della sorellina, ritardata mentale, da lui “dimenticata” su una panchina di un parco perché si vergognava di portarla con se alla festa di compleanno di un compagno di scuola.
Non solo “primi”, cioè speciali, ma “primi gemelli”, cioè vite costantemente ad un passo dal diventare un tutt’uno ma irrimediabilmente alla fine separate.
Convergenze parallele avrebbe detto Aldo Moro.
Buona l’idea, avvincente quanto basta da portarmi a concludere il libro (cosa che, vista la fine che hanno fatto gli altri 5 che ho cominciato e non finito questo mese, deve essere già considerata un successone). Epilogo della storia probabilmente non all’altezza dell’incipit, ma in complesso un buon libro.
Dieci e lode alla metafora!

martedì 1 luglio 2008

Alle cinque della sera

La poesia non è un'espressione... È il tempo di notte, dormire nel letto, pensiero di quello che realmente pensi, rendere il mondo privato pubblico, ed è questo che il poeta fa (Allen Ginsberg)

Sono nata il ventuno
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Alda Merini

Scorci di Laudiade

Brevi spunti di storia del lodigiano (in latino Laudias che, con enfasi più epica, diventa Laudiade) con particolare attenzione al mio paese natale, San Fiorano.


Ho trovato nuove tracce che mi hanno permesso di affermare con certezza che quel Fra Carlo Giuseppe Bignamini da S.Fiorano, autore nel 1764 del trattato sulla Indulgenza della Porziuncola, di cui ho già scritto in queste pagine, sia proprio il sanfioranese DOC citato dallo storico Agnelli, con la frase che qui riporto per comodità: “Era di San Fiorano il padre Carlo Giuseppe Bignamini, vissuto nel convento dei Francescani Riformati di Codogno, poliglotta, autore di un corso di filosofia e di molte dissertazioni di storia ecclesiastica e di uno scritto sul cilindro inclinato”.
Ho infatti rintracciato nei cataloghi di alcune Biblioteche italiane altre tre opere di Fra Carlo Giuseppe, due dissertazioni di storia ecclesiastica e quella strana opera (in latino) sul cilindro inclinato citata dall'Agnelli (per ora so solo che esistono delle copie e dove si trovano. Non le ho ancora viste, ma andrò presto sia in Sormani a Milano che a Torino per consultarle). Eccone intanto i dati salienti:
Dimensio cylindri inclinati auctore P.F.Carolo Josepho a S.Floriano – 1756 Typographia Antonio Agnelli (una copia c/o Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino)
Fondazione della Chiesa di Aquileja (*). Dissertazione storico-critica del Padre F. Carlo Giuseppe di San Fiorano Minori Osservanti Riformati – 1757 Editore Galeazzi Giuseppe Milano (una copia c/o Biblioteca Comunale Palazzo Sormani Milano)
Origine della fede cristiana in Malta. Dissertazioni del padre F.Carlo Giuseppe di San Fiorano - 1759 Editore Giuseppe Galeazzi Milano (una copia c/o Biblioteca Comunale Palazzo Sormani Milano)

(*) Contiene anche a cura del medesimo autore “Navigazione dell'Apostolo
Paolo da cesarea a Malta: Dissertazione cronologico geografica”

Come si può osservare le date si incastrano perfettamente con quanto già sapevamo. Le tre opere sono state scritte tra il 1756 ed il 1759, anno, quest'ultimo, in cui Fra Carlo Giuseppe aveva cominciato a scrivere la quarta, quella sulla Porziuncola, interrompendosi però fino al 1764 a causa dell'impegnativo incarico di priore di un convento francescano che i suoi superiori gli assegnarono. E confermano integralmente il profilo che del nostro illustre sanfioranese diede l'Agnelli ricordandone gli scritti principali, l'edizione e l'anno di pubblicazione.
Ma c'è di più.
Se da una parte ho acquisito certezze sull'identità dell'intellettuale sanfioranese, dall'altra credo di poter smentire l'assunzione di cui andavo cercando prove, ovvero che il nostro fosse anche stato il priore del convento dei frati di Codogno tra il 1760 e il 1763.
Sto leggendo infatti in questi giorni un bellissimo libro “Memorie storiche del Regio ed Insigne Borgo di Codogno” preso a prestito dalla Biblioteca Braidense, riproduzione anastatica efettuata nel 1985 dell'originale manoscritto (anch'esso conservato alla Braidense), composto tra il 1761 ed il 1764 (grossomodo gli anni del priorato di Fra Carlo Giuseppe) da un altro forse ancor più famoso frate tra i Francescani Riformati del convento di Codogno, ovvero Fra Pier Francesco Goldaniga (morto a Milano nel 1799, figlio di Ercole Goldaniga e Maria Maddalena Belloni).
Perchè è importante.
Semplicemente perchè Fra Carlo Giuseppe e Fra Pier Francesco non solo erano certamente contemporanei, non solo vissero nello stesso Convento Francescano di Codogno come indicato da loro medesimi e dagli storici che ne parlarono, ma è infine molto probabile che vi abbiano convissuto addirittura nei medesimi anni, in quella illuminata seconda metà del 18 secolo!
E qui si svela l'arcano, Fra Pier Francesco nel suo libro fa un piccolo richiamo proprio al suo confratello ricordandolo come “il dottissimo Padre Lettor Carlo Giuseppe di San Fiorano minor Riformato” e fa cenno alla sua dissertazione (di qualche anno prima, il 1757) “circa l'origine della Chiesa d'Aquileja”.
Questo mi fa pensare che Fra Carlo Giuseppe svolse il ruolo di priore del quale egli stesso ci parla, non nel convento dei Frati di Codogno, ma in qualche altra convento dello stesso ordine francescano.
Se infatti fosse stato il suo priore in quegli anni, Fra Pier Francesco non lo avrebbe di certo ricordato nel suo libro con una frase così generica come quella citata, importante si, ma non quella con la quale un frate del convento avrebbe menzionato colui che avesse rivestito l'incarico di priore del convento medesimo!
La storia non è ancora finita. Mi aspetto ulteriori novità non appena riuscirò a mettere gli occhi sugli altri tre libri di Fra Carlo Giuseppe.
Fine seconda puntata.

Passeggio


Sullo sfondo Chiesa della Madonna ancora senza cupola

La Tavola fa parte di un gruppo di una trentina di dipinti che il pittore codognese Virgilio Muzzi ha eseguito per illustrare, ricreando suggestive atmosfere cittadine di qualche secolo fa, una bellissima copia anastatica di un manoscritto del 1764 del Frate Pier Francesco Goldaniga intitolato "Memorie storiche del regio ed insigne borgo di Codogno".
E' ritratta una via di Codogno (cittadina a 3Km da S.Fiorano) con sullo sfondo la Chiesa della Madonna di Caravaggio, via a me molto cara per affetti familiari e ricordi giovanili, ritratta in una inconsueta ambientazione di metà '700 (inconsueta ovviamente se la si confronta con l'immagine odierna) .
Nel libro il Goldaniga commenta così:
"...dopo di che vedesi pure alla sinistra il longo e spazioso stradone camparecio detto della Madonna di Caravaggio conducendo con delicioso spasseggio ad esso oratorio e questi è stato formato solo nella primavera di quest'anno 1762 da benefattori di esso oratorio, delineato dal signor cosmografo Cristofaro Bignami nostro patrizio."

domenica 1 giugno 2008

BONSAI

"Chi mai può evocare con la sola parola la potenza spaventosa di un temporale estivo che si scatena improvviso in aperta campagna? O il misterioso spettacolo della pianura avvolta nella nebbia pulita, o l'emozione di una grande nevicata nel cuore della notte invernale, quando tutta la natura sembra acquattarsi sotto la tempesta dei fiocchi di neve, che trasfigura ogni luogo, ogni ruscello vuoto d'acqua, ogni pianta, e le strade spariscono e tutto rimane fermo e prigioniero... Intanto le robuste voci dei conducenti della “lesa” (1) si perdono in lontananza; e il bambino che sente, nel caldo rifugio del suo letto, dice tutto contento nel sonno: “Mama, fioca!” (2)

da “Lettere milanesi” di Mario Zambarbieri

(1) lesa = la slitta spazzaneve trainata da cavalli
(2) Mama, fioca! = Mamma, nevica!

Walt Whitman

I sit and look out

Mi siedo e osservo la tristezza del mondo, l'oppressione e la vergogna
Ascolto i segreti e i convulsi pianti di giovani uomini, l’angoscia per se stessi, il rimorso per il male fatto
Vedo, l’infima vita, i figli maltrattare le proprie madri, moribonde, abbandonate, trascurate, disperate;
Vedo i mariti abusare delle mogli, vedo infidi seduttori di giovani donne
Sento il bruciore della gelosia e dell’amore non corrisposto, che cerca di restare nascosto
Vedo questi posti sulla terra
Vedo l’avanzare della battaglia, della pestilenza, della tirannia vedo i martiri e i prigionieri
Osservo la carestia sul mare, osservo i marinai tirare a sorte chi dovrà essere ucciso per salvare la vita agli altri
Osservo l’obliquità ed il degrado dello sguardo di persone arroganti verso gli operai, i poveri, i negri, i propri simili;
Tutto ciò, tutta la meschinità e l’agonia senza fine
Mi siedo, guardo oltre, ascolto....e non ho più parole.
(mia traduzione)

Consigli per gli acquisti

Ogni lettore non è che un capitolo nella vita di un libro; se non tramanda la sua conoscenza ad altri è come se condannasse il libro ad essere sepolto vivo.da una antica storia del deserto di Adrar (Mauritania Centrale)

L'ingegnere in blu
di Alberto Arbasino
Adelphi

Libro che avrei potuto tranquillamente lasciare sepolto vivo, senza per questo essere assalito da particolari sensi di colpa. Ne parlo perchè, comunque sia, come avrebbe scritto Arbasino stesso, qualcosa di utile il parlarne può stimolare, da un banale “se lo conosci lo eviti” ad un più sfidante “voglio comunque toccare con mano”. Mi sono avvicinato ad Arbasino perchè viene generalmente considerato insieme a Magris uno degli intellettuali più raffinati tra i contemporanei. Mentre di Magris ho letto abbastanza, di Arbasino nulla almeno fino a un mese fa. Se devo giudicare da questo libro, dico che avrei fatto bene a perseverare nella mia beata ignoranza. Romanziere sofisticato, espressionista come lui stesso preferisce definirsi rifuggendo l'attribuzione datagli da altri di scrittore barocco (attribuzione che invece personalmente considero quanto mai azzeccata).E' il libro più faticoso che abbia mai letto in vita mia. Non ho mai visto un periodare così arzigogolato, barocco appunto, quasi rococò, infarcito di dotte citazioni, magari in tre lingue diverse in un paragrafo di sole quattro righe. Certamente una cultura enciclopedica, ma una capacità per converso pressochè nulla di trasmettere qualcosa al lettore, perlomeno al sottoscritto. Pesco a caso per dare solo un piccolo insignificante esempio di ciò che è stato per me in realtà questo libro (un criterio più razionale non avrebbe cambiato il risultato):“Programmi di variorum da archivi orali, sopratutto di scuola ecclesiastica e diplomatica; come nei migliori memoires. Gli spasimi nelle ambasciate francesi alla vigilia della guerra, nel '40. Sotto apparenze di finta calma, preziosi monili depositati da un'insigne duchessa per la visita a Sua Santità, ma trafugati nella cassaforte da spie in cerca di codici e cifre. Pranzi affidati a un giovane segretario già 'coqueluche' alla moda di Chanel che volendo rifare i pranzi parigini in voga con pittoresche verdure e non la solita frutta nei centri-tavola acquista dei broccoletti arcimboldeschi presto pestilenziali, con svenimenti sotto la smoccolatura delle candele colorate..” Ai posteri l'ardua sentenza! Il libro voleva essere, forse, un omaggio ad uno dei maestri riconosciuti di Arbasino ovvero Carlo Emilio Gadda (l'ingegnere appunto) poeta e scrittore tra i più noti del nostro novecento, maestro del quale Arbasino si compiace d'esser stato definito (forse autodefinito), insieme a Pasolini e Testori, uno dei tre nipotini! Dico forse un omaggio perchè, persino nella descrizione del soggetto del libro è palese un barocchismo estremo che non so quanto avrebbe potuto realmente compiacere il maestro, cui la frase era diretta: “La vera grandezza dell'ingegnere consiste nell'aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni “come le foglie”, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all'uso parossistico della madornale figura retorica dell'enumerazione”. Sembrerebbe un alto elogio, ma ...... piuttosto che un elogio così....“alto”, preferirei personalmente ricevere lo sberleffo di una bertuccia. In compenso devo però ringraziare Arbasino di avermi ricordato un gustosissimo aneddoto sui miei amici bergamaschi, campioni di contrazione linguistica, che il maestro Gadda raccontava disquisendo della forza dei dialetti, portando ad esempio l'erosione dell'etimo vinum latino, in vino (italiano), vin (milanese), vi (bresciano)....e finalmente 'i' (l'abominevole bergamasco!).


La paura e la speranza
di Giulio Tremonti
Mondadori

Non sono mai stato un grande estimatore di Giulio Tremonti, più per una questione “fisica”, di pelle, che morale o intellettuale. Quell'aria un po' secchiona, da primo della classe, tutto perfettino, una strana cacofonia in quella sua esile vocina, la erre blesa, una certa supponenza nelle relazioni col suo prossimo, tutte caratteristiche che comportano solitamente un gravame fastidioso sugli zebedei. Ho vinto la iniziale riluttanza più che altro perchè incuriosito da quella parolina in fondo al titolo del suo ultimo libro. Che mai avrà in testa uno “zuccone” come Tremonti per parlare di speranza in uno dei momenti più difficili e pieni di incertezza della storia dell'uomo sulla terra?Quello che ne esce è, incredibile a dirsi, un Tremonti NO GLOBAL!! Ovviamente non nel senso di combattere a mazzate, molotov e bolognini la globalizzazione, considerata invece giustamente qualcosa di ineluttabile, ma nel senso di capirne le ragioni, imparare a conviverci, gestendola a nostro vantaggio ovvero evitando di rimanerne schiacciati e annientati.Questa è infatti, secondo il professore, la destinazione della cara vecchia Europa se continuerà ad agire, o meglio a non agire, come ha fatto fino ad oggi. Europa come l'Angelus Novus di Klee con la testa rivolta all'indietro mentre il vento del progresso la trascina altrove.Una analisi lucidissima delle cause della crisi in cui stiamo per tuffarci o siamo già immersi, una visione catastrofista ma con brio, ovvero con una ipotesi di soluzione in tasca che lascia appunto un po' di speranza.Le economie emergenti che escono dal circuito chiuso tipico della civiltà agricola/contadina affacciandosi su quello aperto dell'economia di mercato fanno crescere la domanda di beni primari, laddove l'offerta rimane invariata. Effetto: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Paradossalmente il sabato usciamo da un supermercato con poco nel carrello e con 100 euro in meno nel portafoglio, ma ciononostante possiamo permetterci di andare il giorno dopo a berci un irish coffe a Dublino con meno di 40 Euro (irish coffe incluso!). Il superfluo low cost, il necessario high cost! E' il fantasma della povertà materiale che trascina con se anche quello della povertà spirituale. “Abbiamo più telefonini, ma abbiamo meno bambini. Stiamo consumando il futuro dei nostri figli!”. La crisi finanziaria si accompagna al disastro ambientale ed alle tensioni geopolitiche per il controllo delle risorse energetiche. Perchè la speranza? Uno perchè dovremmo essere in grado di gestire la globalizzazione visto che siamo noi che l'abbiamo generata, a partire dall'illuminismo basato sulle idee fino al mercatismo basato sugli interessi. Due perchè l'Europa ha già vissuto e superato momenti di intensa rivoluzione e trasformazione. Il più simile a questo, anche se di segno contrario fu l'entrata dell'Europa nel nuovo mondo (oggi è un nuovo mondo che entra nell'Europa). Tre perchè la risposta alla globalizzazione non è economica (valore secondo) ma politica (valore primo) che si rifaccia alle radici “giudaico-cristiane” dell'Europa medesima. E' in parte vero ciò che afferma Blair, ovvero che la dialettica politica oggi non può più essere tra destra e sinistra, ma fra apertura o chiusura alla globalizzazione. Ma è contemporaneamente anche falso perchè la storia prosegue con la globalizzazione e con la storia proseguono, anche se “in forme nuove e non più ideologiche, la storica necessaria semplificazione della realtà nella dialettica tra la sinistra e la destra”. E via con una diagnosi interessante sul crollo della veterosinistra, dei suoi stereotipi e dei suoi paradigmi. Per sopravvivere alla globalizzazione bisogna andare cioè dalla parte opposta alla sinistra. Ma obiettivamente nemmeno verso la destra tantomeno verso una destra di vecchio stampo. E'un ritorno alle radici che indica Tremonti come soluzione. L'Europa è stato fino ad oggi un continente che ha vissuto ed è stato capace di gestire rivoluzioni una dietro l'altra: commerciale, urbanistica, monetaria, grafica, protestante, francese, scientifica, industriale, musicale, artistica. “Ora non è più così. L'Europa unificata dalla moneta (penultima rivoluzione) e allargata a Est (ultima rivoluzione) ci si presenta infatti esausta, non più in grado di fare altre rivoluzioni”. Eppure serve un'altra rivoluzione per contrastare la globalizzazione che è di per se una rivoluzione che però, questa volta, non viene da dentro e non si fa dentro, ma viene da fuori. E infine la ricetta Tremonti, un po' meno argomentata della diagnosi, ma perlomeno apprezzabile nell'intento. Non la svelo. Sarebbe come di un giallo svelare l'assassino a chi il giallo non l'ha ancora letto. L'unica cosa che posso dire è che il colpevole non è il maggiordomo!


Il sessantotto al futuro
Mario Capanna
Garzanti

Come potevo farmi mancare, nel maggio 2008, un'elegia di un altro ben più famoso maggio, quarant'anni prima, quello del '68? Lui nega, dal prologo all'epilogo, ma traspare ovunque, evidente talvolta, subliminale tal altra, una struggente nostalgia di quei “formidabili anni”.Anni di un movimento studentesco di cui Capanna, qui dotto e fine dicitore molto più di quanto ricordassi, è sicuramente stato, in Italia, come Cohn-Bendit in Francia, uno degli indiscussi leader. Nostalgia negata da una parte ma giustificata dall'altra citando ad esempio Bertolucci “Mi rifuto di pensare alla nostalgia come ad una parolaccia. Tre quarti della grande letteratura attingono da li”. O ancora, sempre con Bertolucci “Alla sera andavamo a dormire sapendo che ci saremmo svegliati nel futuro, che avremmo partecipato a cambiare il mondo”. E via dicendo fra i ricordi “Fummo felici si. Ovviamente non facemmo il '68 per divertirci. Ma oltre la fatica, i rischi, i prezzi pagati, è vero che ci siamo divertiti un fottio!”. Oppure ancora il richiamo ai simboli forti del '68 come ad esempio il nero Tommie Smith con il pugno alzato sul podio olimpico. E ancora il '68 e i suoi presunti figli legittimi o meno, il terrorismo nel '78, l'edonismo reganiano nell'88, il tangentismo nel '98 e cos'altro oggi , nello '08? Ed ancora dotte citazioni, da Agostino padre della Chiesa, ad Orwell per dire che “Chi controlla il passato controlla anche il futuro”! Non nega, Mario Capanna, perfino gli errori del '68 anche se, citando Orazio “velut si egregio inspersos reprendas corpore naevos” tende a minimizzarli in quanto sarebbe “come se in un bel corpo si andassero a notare gli sparsi nei”. Ed ecco il gran colpo finale, il '68 visto come il symbolon (tessera, segno di riconoscimento) degli antichi greci ovvero “l'oggetto che veniva spezzato in due, metà per contraente, per denotare il legame di amicizia tra famiglie o città, o per essere ricomposto al termine di un viaggio o di una separazione”. Il '68 come simbolo della storia, perchè spezza e insieme unisce il percorso delle vicende umane.
“Un cammino che fu cominciato, e venne interrotto. A maggior ragione va ripreso". Se non è nostalgia questa!

Alle cinque della sera

La poesia non è un'espressione... È il tempo di notte, dormire nel letto, pensiero di quello che realmente pensi, rendere il mondo privato pubblico, ed è questo che il poeta fa (Allen Ginsberg)

A clear midnight
This is thy hour O Soul,
thy free flight into the wordless,
Away from books, away from art,
the day erased, the lesson done,
Thee fully forth emerging, silent,
gazing, pondering
the themes thou lovest best,
Night, sleep, death and the stars.
Walt Whitman

Una mezzanotte limpida
Questa è la tua ora, oh anima,
il tuo volo libero in un mondo senza parole
lontano dai libri, lontano dall'arte,
il giorno cancellato, la lezione finita
da te elevarsi, silenziosamente,
in ammirazione, riflettendo
sui temi che hai amato di più,
notte, sonno, morte e le stelle.
Walt Whitman

(traduzione mia)

Fotografando


Foto GZ_2008 Ritorno alla natura
San Fiorano: Vecchia corte

Scorci di Laudiade

Brevi spunti di storia del lodigiano (in latino Laudias che, con enfasi più epica, diventa Laudiade) con particolare attenzione al mio paese natale, San Fiorano.


Ancora una volta il poema del Gabiano “Laudiade” mi ha permesso di risalire ad un momento, tanto “poetico” quanto interessante, un vero e proprio scoop sulla storia del mio paese natio, San Fiorano. Nel libro I, dalla riga 694 alla 704, si apprende come nel XVI secolo i sanfioranesi fossero conosciuti, anche oltre i confini del lodigiano, per un importante mestiere, incredibile a dirsi, che molti di loro svolgevano: il mestiere dell’apicoltore! Secondo il Gabiano era infatti famoso, prelibato e richiestissimo il miele prodotto a quei tempi in tre paesi del lodigiano ovvero Meleti (esplicita l’assonanza) Mairago e per l’appunto San Fiorano. Quest'ultimo, aveva qualcosa in più rispetto agli altri due (o perlomeno questo è ciò che mi piace leggere tra le righe). Forse per i campi pieni di fiori particolarmente adatti ad una florida apicoltura, le api di San Fiorano erano ancor più famose delle altre per il consistente contributo alla produzione della rinomata “bionda cera” sanfioranese utilizzata per la produzione delle candele in tutto il circondario. Tralascio, per non tediare, la versione latina originale della Laudiade e passo direttamente alle due traduzioni, la prima ‘libera’, la seconda letterale. Ecco cosa scrive il Gabiano:

“Dell’api vostre le flaventi cere
Il rugiadoso mel ditelo voi,
o Meleti, Mairago e San Fiorano:
Crema lo sa, lo sanno le vicine
Cittadi e quei che nei brumali giorni
Confetti e chicche preparando vanno
Si dolce miel non vanta Imetto ed Ibla
Qual ti danno l’api nostre che del salcio
Suggono i fiori. Qui del miele il regno.”


La libera traduzione mette insieme i tre paesi come produttori di miele e cera e non rende invece giustizia a San Fiorano come unico produttore di quest’ultima. Cosa che invece si percepisce “più chiaramente” nella traduzione letterale che segue, dove nella terza riga il riferimento esplicito è ai “tuoi sciami” (quelli di San Fiorano) e non ai “vostri sciami” (quelli eventualmente dei tre paesi), anche se mi rendo conto che questa può apparire una forzatura dettata dalla ricerca di qualcosa di esclusivo e da un po’ di sano campanilismo (da storico dilettante me lo posso permettere!):

“Racconta tu, o Meleti dal dolce nome del miele,
racconta tu, o verdeggiante Mairago, racconta o San Fiorano
delle bionde cere e del rugiadoso miele dei tuoi sciami.
Lo sa Crema, non lo ignorano le città vicine
Lo sanno tutti coloro che, nei giorni d’inverno lavorano i dolci da dessert.
Un miele di questo genere non produrrà l’Imetto o l’Ibla di Teseo,
quale quello che qui l’ape laboriosa produce saziandosi del fiore del saliceto
Potrai dire che qui c’è il regno odoroso del miele:
difatti la melissa, la cassia, la cerinta, il sermolino
e l’erba profumatissima del Timbra non mancano tra i nostri
fiori, che spandono odore nei giardini tinti di croco.”

La fama come si vede valica i confini dell’Adda ed arriva fino a Crema ed alle città vicine. Ma soprattutto in quei luoghi arriva il miele di San Fiorano, utilizzato dalle pasticcerie cremasche per fabbricare gli squisiti dolci di cui Crema appunto va fiera. Ci vorrebbe in realtà il soccorso di un’analisi più scientifica che aiutasse nell’interpretazione, ma per il momento quello che c'è mi sembra sufficiente e certamente di per se intrigante. Com’è sufficiente ed intrigante, per il momento, quanto Giovanni Agnelli (non l'avvocato ma lo storico lodigiano!) ci racconta nel suo “Dizionario storico geografico del lodigiano”, in un volo indietro nel tempo di oltre un millennio, a proposito di un’altra delle occupazioni vitali dei sanfioranesi, diffusa nel borgo qualche secolo prima che diventassero apicoltori. Siamo intorno all’anno mille ed a leggere l’Agnelli, scopriamo una San Fiorano rivierasca, magari non una fiorita San Remo, ma di sicuro un villaggio di pescatori, abili barcaioli, che alimentavano i poveri deschi delle loro case con il buon pesce pescato nel Lago Barilli (o dei Barilli, od Oriolo o Lambrello) di cui San Fiorano era appunto insieme a Fombio, Guardamiglio , Santo Stefano e forse Somaglia uno dei quattro o cinque paesi costieri (non è chiarissimo infatti se da Somaglia in realtà si dipartiva semplicemente un ramo del Lambro che poi andava a formare il lago oppure se era il lago stesso a lambire questo paese). Leggendo gli scarsi frammenti disponibili su questo pezzo di storia del territorio di San Fiorano si ha per la verità la strana sensazione che, semmai fosse per noi possibile, in una sorta di viaggio temporale, ritrovarci a solcare lentamente le acque del lago Barilli a bordo di una grande barca sanfioranina, ci troveremmo più probabilmente immersi tra le dense brume e le umide nebbie di una vasta e tetra palude medievale, magari non del tutto salubre, e non sulle azzurre acque di un ridente laghetto. Che invece il Barilli fosse ricco di pesce sembra proprio fuori discussione. Riporto integralmente un brano tratto sempre dal “Dizionario” dell’Agnelli che ci spiega qualche fatterello legato a questo lago, che tale rimase per più di tre secoli, prima di prosciugarsi (o di essere prosciugato).
“Fra i beni che il conte Ilderado da Comazzo donò al Monastero di San Vito da lui fondato verso il mille, si fa cenno eziandio di un luogo detto Sorlago vicino a San Fiorano, col lago e col ruscello che scorre nel fiume Lambro . L’anno 1226 venne decisa una lite a favore della Mensa Vescovile di Lodi da Ajolfo priore del convento di San Marco di Lodivecchio, quale delegato del Pontefice Onorio III, contro Enrico Conte di Montecucco che si era da tempo impossessato di questo lago: era già stato, sino dal 1224, pronunciato una sentenza in proposito a favore del Vescovo di Lodi; ma il Conte, lungi dall’abbandonare l’usurpata proprietà, ripetea nuovamente il possesso di questo lago, dell’alveo e di nove piedi attorno alla ripa incominciando da Fellegario di Monte Oldrato, o Somaglia, ove il lago aveva principio, infino ad un luogo vicino a San Stefano, ove terminava, appellato Gualdafreddo de Cucullo. Portata la decisione avanti alla corte di Roma: quel Pontefice delegò il priore Ajolfo al giudizio, il quale, recatosi sulla riva dello stesso lago, né comparendo lo stesso Enrico, lo condannò in contumacia, dandone al Vescovo il formale possesso col leggere la sentenza sulla riva stessa del Lambro. Verso il 1300 il Vescovo Egidio dell’Acqua affittò le ragioni di pescare nel lago per il censo di 40 soldi annui e 10 libbre grosse di pesce.”
Come un lago, verosimilmente vasto fra settanta e ottanta chilometri quadrati, scomparve e come sia scomparso (sembrerebbe che ciò sia avvenuto tra il 1311 ed il 1351) è tutta un’altra storia da raccontare. In effetti in quegli anni attraverso un'opera assidua di prosciugamento si ridusse notevolmente la terra coperta da acque lasciando a secco una boscaglia di circa 5000 pertiche, parte a bosco e parte a palude. L'Agnelli ci ricorda che il vecovo di Lodi Fra Luca Castelli l'anno 1351 donò questa boscaglia ai poveri di Codogno, onde vi si recassero a pascolare ed a far legna. L'opera di bonifica prosegui per più di un secolo. Sempre l'Agnelli conferma che nel 1492, proprio nell'anno in cui Colombo scopriva l'America, i sanfioranesi e gli altri abitanti della zona completarono la costruzione di un cavo scolatore detto Guardalobbia allo scopo di concludere definitivamente il prosciugamento e la bonifica della zona paludosa rimasto nell'area dell'ex lago. Ho provato, con l’ausilio di un po’ di tecnologia, a tracciare quello che verosimilmente poteva essere il profilo costiero del Lago Barilli (in realtà ho utilizzato semplicemente le mappe della superficie terrestre rilevate dal satellite e caricate nel programma web Google Earth). Qui sotto un primo risultato del quale non sono ancora però del tutto soddisfatto. Da alcune osservazioni preliminari posso desumere che il Lago non fosse più profondo di 8 o 10 metri. Presumo infatti che la riva potesse trovarsi fra i 48 ed i 50 metri sopra il livello del mare mentre il punto più basso dovesse trovarsi in prossimità delle Regone (le cascine) nella bassa sanfioranese, tra i 39 ed i 41 metri sul livello del mare. Questo al netto di possibili sommovimenti di terra avvenuti negli ultimi sette secoli dopo il prosciugamento e la messa a coltura dell’area allora sommersa dalle acque. Poco più di una palude, sono propensi a dire gli storici! A me piace pensarlo come un ridente laghetto solcato dalle grandi barche dei sanfioranesi che al largo gettavano le reti sotto un magnifico caldo sole di mezza estate ed in attesa di essere ripagati con una abbondante pesca, frutto della loro fatica, ammiravano in lontananza, oltre il grande fiume, le prime propaggini dell’Appennino stagliarsi contro il limpido cielo azzurro di tanto, tanto tempo fa.
Dis.2008 Ricostruzione in Google Earth del Lago Barilli

Antiqua

In questo spazio voglio tener traccia di alcuni fatti salienti e commentare alcuni dei "risultati" prodotti da uno dei miei hobbies degli ultimi anni, l'acquisto, principalmente su e_bay, di libri antichi (ovvero libri con almeno100 anni di vita). E' per me un piacere incredibile tenere un libro antico tra le mani, sfogliarne con cura ed amorevole attenzione le pagine per non accelerare l'inevitabile processo di degrado, sentire tra le pagine l'acre profumo dei secoli. Al di la di ciò che racconta, al di la del contenuto, un libro porta sempre con se la sua storia, il suo vissuto personale intrinseco, una traccia degli avvenimenti in cui è stato immerso nel suo cammino fino a noi, un pezzo della vita di chi lo ha letto e lo ha riposto all'interno della propria casa.Elementi questi che ne fanno un oggetto "vivo".

The War of the Nations (Portfolio)
Ed. New York Times
New York City (NY) 1919
Uno splendido libro fotografico sulla I Guerra Mondiale uscito nel 1919 dalle rotative del New York Times prodotto con una tecnica particolare denominata Rotogravure Etchings overo stampa di alta qualità ottenuta con un cilindro di rame su rotoli di carta speciale. Il risultato è una serie di stupende immagini alle quali, l'effetto seppia, da un senso profondo ed emozionante di tempo che fugge. Sono 528 pagine king-size (28mm x 40mm) con più di 2000 immagini di diverse dimensioni, dalla foto formato tessera alla gigantografia su due pagine, che raccontano diverse storie di paesi, nobiltà, miseria, popoli, distruzioni e macerie. In poche parole un passaggio rapido sull'umanità in uno dei momenti più orribili quale solo la guerra può essere. Il libro è suddiviso di fatto in capitoli con una comune dimensione che è quella geografica. Le prime 92 pagine sono esclusivamente fotoritratti a partire dal bel faccione di Woodrow Wilson, 28 presidente degli Stati Uniti, a tutti i protagonisti al comando della nazioni in guerra; potremmo definirlo l'album di famiglia dei Signori della Guerra. Da questo capitolo ho estratto un piccolo campionario, composto da alcuni dei nomi più rappresentativi per ogni nazione, giusto per dare un'idea della magnificenza e del realismo che si respira scorrendone le pagine.


Nicola II Zar di tutte le Russie (1894-1917)


Giorgio V Re d'Inghilterra e Imperatore d'India (1910-1936)


Alberto I Re del Belgio (1909-1934)


Vittorio Emanuele III Re d'Italia (1900-1946)


Francesco Giuseppe Imperatore d'Austria e Re d'Ungheria (1848-1916)


William S.Sims Ammiraglio Comandante della flotta degli Stati Uniti


Ferdinand Foch Maresciallo francese

Si sa, le guerre sono sempre associate ai grandi nomi e personaggi della storia, ma sono in realtà combattute dalla gente comune, mai nominata, sconosciuta, spesso persino non sopravvissuta ad essa. Ho voluto estrarre dalle numerosissime foto di questo libro, associandole a quelle dei re e degli imperatori, due immagini significative di gente comune, l'esuberanza dei vincitori da una parte, l'umiliazione dei vinti dall'altra. A ben guardare da vicino i singoli volti in quella moltitudine di prigioniei tedeschi non è difficile leggere il sollievo di essere sopravvissuti al massacro e la contentezza di poter forse tornare presto alla vita di tutti i giorni dalle proprie famiglie.


Militari australiani mentre costruiscono un ponte sospeso su un canale di fronte alla Piramide di Giza


Prigionieri tedeschi in attesa di conoscere la propria destinazione.

Gli altri capitoli del libro dedicati alle operazioni militari snocciolano brani di guerra sui diversi fronti da quello occidentale a quello orientale, dall Francia, ai Balcani, dai Dardanelli alla Mesopotamia. Immagini di folle impaurite, di soldati sporchi e spossati, di trincee, di città, di palazzi rasi al suolo. Moltissime foto di soldati a cavallo! Non pensavo che la I Guerra Mondiale fosse stata ancora una guerra “a cavallo”. Con un editore come il New York Time è scontato che lo stile con cui sono esposte le immagini e trattati gli argomenti è uno stile giornalistico che punta allo scoop, alla curiosità, ovvero a tutto ciò che fa notizia nella notizia. Per cui, al di là delle foto che immortalano i grandi momenti di incontro tra i potenti della terra, immagini di cronaca di gente comune, di momenti di vita vissuta. Ad esempio le foto, le immagini della cerimonia funebre e delle tombe dei primi tre soldati americani morti nella grande guerra. Il libro mi arriva da una cittadina del Maryland, Dickerson, 50 miglia nord ovest da Washingon DC lungo il corso del Potomac River, il Fiume della Nazione che attraversa la capitale staunitense.

martedì 13 maggio 2008

Civiltà contadina


Foto GZ_2008 Cascinale Paolo (San Fiorano)

"Non è finto il destrier, ma naturale,
ch'una giumenta generò d'un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l'ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l'altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,
molto di là dagli aghiacciati mari."

dall'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto

L'opera in ferro battuto, apposta sull'angolo sud orientale del cascinale, è stata creata dal Sig. Savi di Grazzano nel 1929 a partire da questo disegno che ho ripreso nel numero di Febbraio 1930 della rivista "L'Architettura Italiana" in un articolo sulla ricostruzione del Cascinale Paolo, casa colonica di San Fiorano progettata con caratteristiche di comfort inimmaginabili per una famiglia contadina di quell'epoca, comfort non solo fisico ma anche morale.

Della casa colonica infatti faceva e fa tuttora parte integrante un piccolo teatro, un vero gioiello, simbolo di una cultura contadina di cui i Sanfioranesi vanno giustamente fieri.

Il teatro si trova esattamente dietro alla fontana, altra stupenda opera sulla quale spicca una scritta in latino, testimonianza dell'ironia e della benevolenza di cui godevano presso i propri coloni, i proprietari, Paola ed Emilio Augusto Botturi Polenghi. Dice "Ninfa del luogo: bevi, lava, taci"(!) La frase è stata ripresa da una iscrizione ritrovata su una fonte presso Palazzo Salviati ai piedi del Gianicolo a Roma.

Foto GZ_2008 Cascinale Paolo (San Fiorano)

giovedì 8 maggio 2008

Fotografando

Foto GZ_2008
Next Vintage Show Castello di Belgioioso
Caste dive

sabato 3 maggio 2008

Alle cinque della sera

La poesia non è un'espressione... È il tempo di notte, dormire nel letto, pensiero di quello che realmente pensi, rendere il mondo privato pubblico, ed è questo che il poeta fa (Allen Ginsberg)
Ya está el campo sin gente,
los montes apagados
y el camino desierto;
sólo de cuando en cuando
canta un cuco en la umbría de los álamos.
ultima estrofa de "El lagarto viejo" 26/07/1920 (Vega de Zujaira)
Federico Garcia Lorca
La campagna è deserta,
i monti sono spenti
ed è vuota la strada:
solo di quando in quando
un cuculo canta nell'ombra dei pioppi.
ultima strofa di "La lucertola vecchia"
di Federico Garcia Lorca


giovedì 1 maggio 2008

La collina

di Fabrizio De André
da "Non al denaro, non all'amore nè al cielo", liberamente tratto dall'Antologia di Spoon River
Foto "The Hill" di W.Willinghton


Scorci di Laudiade

Brevi spunti di storia del lodigiano (in latino Laudias che, con enfasi più epica, diventa Laudiade) con particolare attenzione al mio paese natale, San Fiorano.


Giovanni Agnelli
Grazie ancora una volta allo storico lodigiano Giovanni Agnelli, sono riuscito a rintracciare alcuni frammenti legati ad un sanfioranino di qualche secolo fa, un personaggio colto, uno studioso, un filosofo, oltre ad essere un religioso, forse il primo intellettuale di San Fiorano di cui siano rimaste tracce documentali.
Nel suo tomo stampato nel 1917 intitolato “Lodi ed il suo Territorio” l'Agnelli ci da una serie di indicazioni di grande interesse a proposito di San Fiorano. Tra le tante, una mi ha colpito:
Era di San Fiorano il padre Carlo Giuseppe Bignamini, vissuto nel convento dei Francescani Riformati di Codogno, poliglotta, autore di un Corso di filosofia e di molte dissertazioni di storia ecclesiastica e di uno scritto sul cilindro inclinato”.
Indicazioni scarne, come si vede, prive di datazione, con quella curiosa associazione tra competenze teologiche e geometriche! In ogni caso sufficienti a stimolarmi a rintracciare, presso la Biblioteca Braidense di Milano, un libro scritto da un certo F. CarloGiuseppe da S.Fiorano intitolato “L'indulgenza della Porziuncola illustrata” stampato nel 1764 dalla tipografia Giuseppe Galeazzi di Milano il cui autore, in fieri, assomigliava molto al personaggio citato dall'Agnelli.




Ora, un legame sicuro non c'è, ma credo non si possa che convenire che gli indizi e le coincidenze sono talmente rilevanti da indurre ad affermare con certezza quasi assoluta che siamo effettivamente in presenza della stessa persona.
Un francescano, di nome Carlo Giuseppe, colto, esperto in cose della chiesa, di San Fiorano!
Ce n'è a sufficienza per confermare che quel giorno, in quella splendida sala di lettura della Braidense, il libro che ho tenuto in mano e sfogliato con attenzione fosse effettivamente un libro scritto da un sanfioranino DOC la bellezza di 244 anni fa.
Non nascondo il piacere provato nello sfiorare le pagine di pergamena ancora in ottimo stato a giudicare dal colore e dallo scricchiolio prodotto mentre le sfogliavo. Ed in quell'ambiente poi, pensando alla storia di quel luogo, originariamente Biblioteca dei Gesuiti, aperta al pubblico come Biblioteca Nazionale solo nel 1786. Riporto qui una seconda pagina, tra quelle che ho scannerizzato, ovvero quella iniziale della Prefazione (notare la decorazione).




Emozionante leggere le parole di un compaesano del '700, in un italiano arcaico, colto, ma assolutamente intelleggibile.
Piccolo gustosissimo aneddoto giusto per rendere l'atmosfera. Nella prefazione Frate Carlo Giuseppe dice di avere cominciato a scrivere su questo argomento già nel 1759 ma che appunto solo 5 anni dopo il libro ha potuto essere dato alle stampe. Perché? Dice testualmente:
Perché, rispondo, non so se mi dica per buona, o per mala ventura, fui destinato nel 1760 da miei Superiori, comecché ritroso e di mal in corpo, al governo di un nostro Convento. Il qual noioso e intrigatissimo mestiero mi convenne esercitare per lo spazio di tre anni continui, fino alla fin del Settembre del 1763: durante il qual tempo non solo mi è stato impossibile proseguire i miei studi, ma avea perduto si sgraziatamente l'uso dello scrivere, che poi ripigliando il lavoro e cominciando a sporre le raccolte materie, non trovava da principio né verso, né bandolo a distrigar la matassa. Poi a dirla schietta io sono sempre stato un certo cotale, tutto impastato di flemma, che mai non ho saputo avvezzarmi a far le mie faccende con fretta. Ma lasciam dall'un de' lati queste baje, e favellando sul serio veniamo a narrare qual sia il disegno di questa mia fatica.”
Grande! Uno che certamente non aveva peli sulla lingua! Nemmeno parlando di se medesimo.
Me lo immagino (ritroso e di mal in corpo!) mentre da un lato confessa quanto il mestiere di priore del convento sia un mestiere noioso e intrigatissimo, e dall'altro fa autocritica dichiarandosi tranquillamente e senza problemi un flemmatico posapiano.
Continuerò comunque le ricerche per vedere se riesco a scoprire qualcosa di più, qualche ulteriore frammento di questa storia. Intanto ecco una foto della Chiesa delle Grazie di Codogno, detta dei Frati, per il fatto che dal 1623 vi era annesso appunto il convento dei Francescani Riformati (proprio il convento citato dall'Agnelli!) soppresso nel 1780 ed acquistato negli ultimi decenni del secolo scorso da Madre Cabrini che vi fondò la prima casa delle Missionarie del Sacro Cuore.



Chissà che non riesca comunque a rintracciare in quella Chiesa, risolvendo così un'altra potenziale coincidenza, il nome del priore del convento negli anni tra il 1760 ed il 1763. Mi sbaglierò, ma sono sicuro di conoscerlo già!

Consigli per gli acquisti

"Ogni lettore non è che un capitolo nella vita di un libro; se non tramanda la sua conoscenza ad altri è come se condannasse il libro ad essere sepolto vivo."
da una antica storia del deserto di Adrar (Mauritania Centrale)

Cristolu
di Salvatore Niffoi
Ed. Il Maestrale
Mi capita spesso di passare in rassegna gli scaffali di qualche grande libreria milanese senza una meta precisa, giusto per curiosare un poco e magari scoprire, per puro caso, qualcosa di interessante sfuggito alle modalità più tradizionali con le quali solitamente prendo informazioni e decido l'acquisto di un determinato libro.Tra i miei criteri di scelta non figurano fra l'altro nemmeno i premi letterari (preferisco non farmi condizionare a priori da giudizi cosiddetti “di qualità”) e qualche volta può essere una fregatura. Questa “criticabile” abitudine mi ha portato ad esempio in questo caso ad ignorare completamente, perlomeno fino a qualche giorno fa, un autore come Salvatore Niffoi, vincitore a quanto ora mi risulta di un Campiello nel 2006 ed autore di oltre mezza dozzina di romanzi.L'acquisto di Cristolu è stata un esperienza assolutamente particolare!Lo osservo sullo scaffale. Piccolo, fuori standard, piazzato di faccia anziché di costa, di un inusuale color marrone con una strana scritta in nero per titolo, “Cristolu”, a fianco di una bizzarra maschera di pietra raffigurante un personaggio grottesco, sicuramente un diavolo, ma dall'aspetto un po' comico, con un nasone immenso, baffoni e pizzetto!Lo prendo, me lo rigiro fra le mani cercando di cogliere qualche elemento in più. Le dita scorrono ora sui bordi, lentamente, quasi a prolungare l'attesa, poi finalmente lo apro. Gli occhi corrono a leggere il risvolto di copertina. Una pugno nello stomaco! Cito testualmente:“Mi chiamo Barore Suvergiu, noto Cristolu. Nato a Orotho il giorno 19 Febbraio 1850. Stato civile nubile e professione nessuna. Un po' frate e un po' bandito , questo lo decida chi leggerà un giorno la mia storia. Altezza un metro e sessantacinque senza i cosinzos, capelli pochi, occhi verdi e sempre tristi da quando il destino mi ha dato un calcio nel basso ventre e il Signore non è riuscito a trattenere la mia collera. Segni particolari: una cicatrice da forcipe sulla tempia sinistra e una da coltello sul fianco destro”.Vorrei chiamare all'appello tutti i pubblicitari d'Italia per vedere che voto danno ad un teaser del genere. Cristolu, già un nome curioso che sa un po' di blasfemo! Sembra trattarsi di un uomo (frate, bandito), ma è nubile! Che sia un errore, oppure in Barbagia, celibe o nubile non fa differenza? Cicatrice da forcipe? E' uno che ha cominciato a soffrire ancor prima di mettere fuori il naso dall'utero materno! Occhi verdi, tristi. E' il contrasto malinconico per antonomasia!Chissà che storia nasconderà! Lo compro, lo leggo, con una rapidità che non sperimentavo da tempo. Rimango strabiliato!All'inizio pensavo di essere incappato in una riedizione stampata di quel pezzo irresistibile di “Aldo, Giovanni e Giacomo”, dove Giovanni regge la scena praticamente da solo con quell'uso parodistico di un dialetto sardo chiaramente fasullo, estremo, duro e divertentissimo.Poi la catarsi. L'incipit vero, in cui Niffoi descrive una gelatinosa atmosfera novembrina che avvolge ed accompagna il parroco di Orotho, Don Frunza, novello don Abbondio, mentre si reca per la benedizione al camposanto di questo paese della Barbagia; un grandissimo pezzo di narrativa. Poi il sardo! Niffoi ne fa un uso viscerale quasi onomatopeico, come Camilleri del siculo.Storie di òmines e di èminas di questo strano paese si intrecciano intorno al diario di Barore Suvergiu, noto Cristolu, diario scoperto per caso (o forse no!) su una tomba, un po' in disparte rispetto alle altre, nel camposanto di Orotho; diario che tanto colpisce preti e vescovo barbaricini al punto da indurli ad utilizzarlo, al posto dei Vangeli, come lettura sulla quale basare il sermone domenicale.Il racconto di don Frunza sulla vita di Cristolu attirerà infatti i parrocchiani di Orotho come mosche sul latte, dopo che per diverse ragione tutti quanti avevano mostrato ormai da tempo segni di profonda insofferenza (e quindi di rinuncia) alla domenicale rievocazione (millenaria) della vita di Cristo.Il cuore (apocrifo) del racconto è il paragone latente fra due storie di un estremo sacrificio in nome degli altri: a favore di una piccola comunità barbaricina, quello di Cristolu, dell'intera umanità, quello di Cristo.Quindi nulla di nuovo a prima vista, solo una semplice metafora, se non che, poco alla volta, si scopre come il sacrificio avvenga con modalità diametralmente opposte: l'occhio per occhio di Orotho appare violentemente contrapposto al porgi l'altra guancia di Gerusalemme.Il parroco, contro tutto e tutti, istituzioni sacre e profane, famiglie barbaricine potenti e prepotenti, ne approfitta alla grande, allungando il brodo, centellinando i capitoli, creando ad arte le interruzioni, rimandando sul più bello alla puntata/domenica successiva. Un sequel magistralmente orchestrato fino a scoprire piano piano l'intera vicenda con un crescendo rossiniano di civica consapevolezza.
L'ozio come stile di vita
di Tom Hodgkinson
Rizzoli
Altro acquisto d'impulso. Per la verità questo libro ha sostato per parecchi mesi sullo scaffale della mia libreria che ospita i libri in lista d'attesa. Compro infatti molti più libri di quanto umanamente riesca a leggerne e quindi ho dovuto creare questa “piazzola di sosta” dove dirottare le “eccedenze”. Per di più, un libro con questo titolo non poteva che meritarsi un po' di ozioso sano riposo, nonostante il titolo rappresentasse, rispetto al lavoro del suo autore, un curioso ossimoro che predisponeva a non prendersela così tanto comoda.Ma come disse Oscar Wilde, “non far niente è il lavoro più duro di tutti”!Come sempre, se non si conoscono né libro né autore, è il risvolto di copertina ad incitare al misfatto. Leggere che l'ozio ha avuto grandi ed autorevoli cantori, da Russel a Whitman, da Stevenson a Nietzsche e Byron, è stato più che sufficiente ad incuriosirmi. Comprato!Il libro è in effetti un po' snob e anacronistico, certamente ironico, assolutamente “rilassante”.Snob perché è una voce fuori dal coro di un mondo dominato dall'etica del lavoro, dall'efficienza e dal consumismo. Anacronistico perchè, seguendo il filo delle dotte citazioni, sembra quasi di immergersi "languidamente" in un passato remoto scomparso per sempre nell'oblio. Ironico per alcuni punti di vista in difesa dell'ozio portati evidentemente all'esasperazione. “Rilassante” perché racconta, con dovizia di richiami a personaggi famosi, la giornata tipo dell'ozioso partendo dal primo capitolo intitolato “Svegliarsi è dura” passando per “Lavori e dolori” tergiversando su “L'arte della conversazione” e concludendo con “Un sogno ad occhi aperti”.Da “I pensieri oziosi dell'ozioso” di J.K.Jerome un assaggio dello spirito del libro: “Ah come è delizioso voltarsi dall'altra parte e tornare a dormire, proprio solo per cinque minuti. Io mi domando: esiste un essere umano, a prescindere dall'eroe delle scuole domenicali, che si alzi sempre volentieri?”Poi la sveglia. “Quale genio malvagio ha riunito questi due nemici giurati dell'ozio, l'orologio e l'allarme, in un unico dispositivo? Non solo alzarsi presto è del tutto innaturale, ma io voglio affermare che restarsene a letto mezzo addormentati, gli studiosi del sonno chiamano ipnagogico questo stato, è estremamente benefico per la salute e l'umore.” E via “filosofeggiando” fino all'ora di pranzo, con l'imperversare nefasto del fast food a danno della cultura del pranzo tradizionale che durava, nel bel tempo andato, da due a tre ore. Poi gli oziosi che guardano con orrore ai MacDonald o agli Starbucks. I caffè del XXI secolo sono in effetti molto diversi da quelli del XVIII secolo che erano luoghi d'ozio per eccellenza. Quando, in piena rivoluzione industriale furono introdotte tasse sulla vendita della birra, rendendo illegali i pub privi di autorizzazione ufficiale, William Cobbett (politico, agricoltore, giornalista) iniziò una campagna a favore dei pub, sostenendo che la loro chiusura era un segno evidente della miseria e della decadenza prodotta dall'industrializzazione. “Un tempo il pub aveva la funzione di centro della comunità: offriva un locale aperto a tutti dove persone le cui case erano probabilmente troppo modeste per ricevere gli amici potevano discutere liberamente, bere a volontà e fare baldoria. Ci si fa un'idea chiara di come la Rivoluzione Industriale stesse eliminando il divertimento dalla vita”. Cobbet riteneva che gli elementi essenziali di una vita felice fossero le tre B: “Bread, Beer and Bacon” (!). E Chesterton dopo di lui scriveva “Certamente sacrificheremmo tutti i nostri cavi, gli ingranaggi, i sistemi, le specialità, la scienza fisica e la frenetica finanza per una mezzora di felicità come quella che abbiamo vissuto spesso con degli amici in una comunissima taverna”.Altro capitolo, forse il più bello ed ironico, quello sulla passeggiata quotidiana. Provo ad esprimere il concetto in forma matematica.Sia X una persona normale ed Y un ozioso. Nello spostamento di X da A a B l'importante per X è B, ovvero la meta. Nello spostamento di Y da A a B per Y ciò che conta è AB ovvero il tratto fra A e B, non importa né da dove si parte né dove si vuole andare.Credo che questo renda molto bene il punto.Walter Benjamin, filosofo radicale, era particolarmente attratto dalla figura del flaneur francese, traducibile con bighellone oppure ozioso, che stava ad indicare la figura elegante del distinto perdigiorno che amava passeggiare senza scopo sotto i portici parigini, osservando, indugiando, ciondolando. Figura il cui eroe era ad esempio Baudelaire, invidiato per essersi liberato dalla schiavitù del salario e quindi libero di girovagare senza meta per le vie di Parigi.Ebbene Benjamin ci regala questa perla:“Nel 1839 era elegante portare una tartaruga andando a passeggio. Il che da un'idea del ritmo del flaneur nei passages (di Parigi ndr)”.“Una tartaruga al guinzaglio! Che meraviglia. Di sicuro più rasserenante di un cane iperattivo che annusa, abbaia, sbuffa, urina, strattona.”Grande!

Antologia di Spoon River
di Edgar Lee Masters
Einaudi
E' un classico (è stato scritto agli inizi del secolo scorso) che ho letto solo oggi e che invece avrei potuto leggere anni fa se solo avessi avuto allora la curiosità di indagare un po' più a fondo sull'ispirazione lirica di quello che considero uno degli album più belli composti da un grandissimo tra i poeti contemporanei, Fabrizio De Andrè.Ricordavo infatti, fino ad un paio di mesi fa, solo poche cose legate a Spoon River ed al suo autore, entrambe filtrate dalla musica che ascoltavo nei primi anni settanta. La prima è appunto lo stupendo album del Faber intitolato “Non al denaro, non all'amore...” composto da nove brani i cui testi sono ispirati da nove epitaffi che DeAndrè ha pescato (a mio avviso migliorandoli!) in Spoon River; la seconda è una fugace citazione nella “Canzone per Piero” dove Francesco Guccini canta “E' in gamba sai, legge Edgar Lee Master......”.Ma forse è stato meglio così. Uno perché ho rispolverato oggi dopo tanto tempo il disco del Faber e me lo sto riascoltando da almeno un paio di settimane.Due perché leggere le poesie di Lee Masters con questa colonna sonora di sottofondo, è un'esperienza piacevolissima.Tre perché oggi, al contrario di quando mi sono imbattuto in Spoon River per la prima volta, non ho più a che fare con la visione quasi epica della vita che potevo avere, adolescente, nei primi anni settanta, contaminato per di più dalle illusioni intellettualoidi di qualche amico sessantottino più grande di me. Ovviamente oggi, attraversando una fase più realista dell'esistenza, mi sento in maggior sintonia con lo spirito scarno ed asciutto di questa stupenda raccolta di poesie.Ci ho messo due mesi a leggere l'intera Antologia. Nulla di strano perché questo è secondo me il destino di un libro di poesia. Distillarne goccia a goccia il contenuto. Tenerselo a tiro per molto tempo, leggerne magari solo una o due pagine per volta, assaporarne il contenuto lentamente, gustandone le pieghe, i dettagli, i minimi risvolti. Il ritmo della poesia è per definizione da andamento lento.Nell'Antologia Edgar Lee Masters snocciola 19 storie che coinvolgono un totale di 244 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. In ogni poesia ciascun personaggio, dalla propria tomba sulla collina di Spoon River, racconta al mondo in forma di epitaffio il senso della propria vita o della propria morte. Si dice che l'autore abbia tratto ispirazione osservando i suoi concittadini, gente realmente vissuta nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield.Leggo dall'introduzione della bellissima edizione Einaudi un commento di Cesare Pavese, uno dei primi estimatori di Lee Masters."Come i morti di Dante , che sono più vivi che in vita, i morti di Spoon River prolungano in una forma sepolcrale tutti i loro malcontenti, le loro passioni. Ma il parallelo si ferma qui, poiché i morti di Dante hanno uno schema universale in cui rientrano e nessun dannato si sogna di criticare la propria destinazione, mentre quelli di Spoon River nemmeno da morti han trovato una risposta, e meno di tutti quelli che lo dicono."

Antiqua

In questo spazio voglio tener traccia di alcuni fatti salienti e commentare alcuni dei "risultati" prodotti da uno dei miei hobbies degli ultimi anni, l'acquisto, principalmente su e_bay, di libri antichi (ovvero libri con almeno100 anni di vita). E' per me un piacere incredibile tenere un libro antico tra le mani, sfogliarne con cura ed amorevole attenzione le pagine per non accelerare l'inevitabile processo di degrado, sentire tra le pagine l'acre profumo dei secoli. Al di la di ciò che racconta, al di la del contenuto, un libro porta sempre con se la sua storia, il suo vissuto personale intrinseco, una traccia degli avvenimenti in cui è stato immerso nel suo cammino fino a noi, un pezzo della vita di chi lo ha letto e lo ha riposto all'interno della propria casa.Elementi questi che ne fanno un oggetto "vivo".


Il libro in questione è in inglese ed è intitolato "Popular Customs, sport and recollections of the South of Italy"di un certo Charles MacFarlane edito a London dalla C.Knight&Co nel 1846.

Il libro uscito a metà '800 è pieno zeppo di luoghi comuni sull'Italia centro-meridionale tanto radicati che non sembra nemmeno che siano passati 160 anni. Ma è anche pieno di stupende figure o personaggi caratteristici dell'Italia di quel tempo descritti con dovizia di particolari, a volte anche curiosi, spesso illustrati anche attraverso disegni molto belli (ne riporto qui un paio).
Basta scorrere rapidamente l'indice per vedere qualcuno di questi personaggi, raccontati con l'ingenuità del visitatore straniero, ma anche con l'occhio disincantato e sicuramente non campanilistico di un anglosassone:
a) Mangiatori di maccaroni (e di pasta in generale) indicata come il cibo dei poveri ed il pasto preferito dai napoletani. Bellissimo l'accenno agli “strangola-prevete”.
b) Gli scrittori di lettere conto terzi. L'accento qui è posto su una differenza tra londinesi e romani o napoletani. Anche a Londra c'è molta gente che non sa scrivere, ma è sempre più difficile trovare famiglie dove non ci sia nemmeno un membro che sappia scrivere. Ragion per cui, al contrario di Roma, ma specialmente di Napoli, il mestiere di scrivano conto terzi a Londra è praticamente scomparso.
c) I Festaioli. Vengono descritti i principali balli preferiti dagli italiani come il saltarello romano, la tarentella (si proprio con la e) napoletana
d) I canta-storia. Quelli del Molo di Napoli (in ccoppo o Molo) non suonano mai uno strumento ma eventualmente si fanno accompagnare perchè loro, nel raccontare, hanno bisogno di avere le mani libere per gesticolare. Una delle storie preferite sembra fosse la Gerusalemme liberata del Tasso.
e) I ciarlatani. Figure tipicamente presenti sia a Roma che a Napoli, ma a giudicare dall'accento, provenienti da altri posti e particolarmente dalla Toscana (solo pochi dalla Lombardia e quei pochi principalmente da Brescia e Bergamo). L'impudenza, la loquacità,la velocità di mano e di sguardo erano giudicati incredibili.
f) I giocatori di morra.Gioco molto antico (noto fin dall'antica Roma con il nome di “micare digitis”) riservato ai soli uomini che giocavano con passione ed accanimento. Il gioco era condannato dalla Chiesa come diabolico.
g) I burattinai. I burattini o fantoccini erano uno spettacolo molto più popolare della “lanterna magica”, altra attrazione comunque in voga nell'800. Commedie , tragedie, pezzi dell a Bibbia. Il Giuda Iscariota era uno degli spettacoli preferiti e particolare era l'attesa che si creava per il momento dell'auto-impiccagione.

E via discorrendo per una pletora di altri personaggi.

Questa volta non ho alcun indizio sulla storia del libro a parte che mi arriva da una cittadina del Delaware di nome Seaford a ca 90 miglia da Baltimora.

Bonsai

"...........Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell'inquietudine e del vano desiderio – è una barca che anela al mare eppure lo teme"

tratto dall'epitaffio di George Gray
in Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters


domenica 6 aprile 2008

Scorci di Laudiade

Brevi spunti di storia del lodigiano (in latino Laudias che, con enfasi più epica, diventa Laudiade) con particolare attenzione al mio paese natale, San Fiorano.

Impossibile parlare della mia terra, il lodigiano, senza ricorrere, tra le diverse fonti, proprio alla "Laudiade" di Ioannes Iacobus Gabianus.E' un poema epico (didattico) in 5 libri, scritto nel XVI secolo, che narra appunto del lodigiano, delle sue genti, dei borghi, della natura, della pianura e del fiume, del grande fiume, il Po che ne traccia il confine meridionale insieme ai due affluenti il Lambro, sul confine occidentale e l'Adda su quello orientale. E' composto di 3991 esametri in latino, in una forma cosidetta encomiastica, ovvero di elogio alla bellezza della terra e della gente che la abita. E' quasi una enciclopedia per la vastità degli argomenti che tocca (contiene infatti tutto lo scibile su Lodi e il lodigiano, dai beni, ai paesi, agli ordini religiosi e monastici, ai castelli, ai dignitari ecclesiastici etc.)
Due parole sull'autore della Laudiade. Ioannes Iacobus Gabianus è un poeta, tra i primi docenti della prima scuola superiore fondata all'inizio del XVI secolo nel territorio di Lodi, ovvero il Ginnasio decurionale della città. Gabiano prese l'incarico il 2 agosto del 1557 per uno stipendio annuo di 400 Lire, incarico che gli venne rinnovato ogni quattro anni ininterrottamente fino al 1579, ovvero un anno prima della sua morte. La lettera d'incarico recitava”...magnificum Ioannes Iacobus de Gabiano, gramatices professorem, ad docendum iuvenes bonas litteras”.
All'insegnamento delle lingue classiche alternò la scrittura di poemetti, orationes e prose con uno stile colto ma ridondante e ricco di retorica.
Un esempio: il Gabiano fu incaricato di scrivere e recitare il discorso celebrativo per l'elezione a Vescovo di Lodi, il 20 maggio 1563, del Cardinale Capizucco. Tale era il suo abituale stile enfatico che, con tutta naturalezza, si trovò a concludere il breve sermunculus che stava pronunciando con l’augurio, obiettivamente un po’ eccessivo, che il cardinale dovesse essere eletto Papa il più presto possibile!
Un po' troppo, visto che in quel momento in Vaticano viveva, sano ed arzillo come un pesce, Papa Pio IV, tranquillamente e beatamente in carica!! Tra l’altro l’augurio non funzionò granché visto che alla morte comunque ravvicinata di Pio IV (avvenuta due anni dopo, nel 1565) il successore non fu di certo il Vescovo di Lodi bensì Antonio Michele Ghisleri da Bosco Marengo con il nome di Pio V (rimase in carica per altri 10 anni!!)
Questo suo modo enfatico di esprimersi ed una spiccata fantasia si ritrovano anche nella Laudiade dove il Gabiano, nell'illustrare Lodi e tutti i paesi del lodigiano, si lancia in una ricerca etimologica a volte esasperata, indicando il significato o la provenienza dei nomi dei vari paesi, spesso con un effetto di palese forzatura antistorica che ai miei occhi appare perfino un poco comico. Ma alla poesia si perdona tutto!

giovedì 3 aprile 2008

Antiqua

In questo spazio voglio tener traccia di alcuni fatti salienti e commentare alcuni dei "risultati" prodotti da uno dei miei hobbies degli ultimi anni, l'acquisto, principalmente su e_bay, di libri antichi (ovvero libri con almeno100 anni di vita). E' per me un piacere incredibile tenere un libro antico tra le mani, sfogliarne con cura ed amorevole attenzione le pagine per non accelerare l'inevitabile processo di degrado, sentire tra le pagine l'acre profumo dei secoli. Al di la di ciò che racconta, al di la del contenuto, un libro porta sempre con se la sua storia, il suo vissuto personale intrinseco, una traccia degli avvenimenti in cui è stato immerso nel suo cammino fino a noi, un pezzo della vita di chi lo ha letto e lo ha riposto all'interno della propria casa.Elementi questi che ne fanno un oggetto "vivo".




Proseguendo la ricerca legata al Marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, sono entrato in possesso di un interessante pezzo antico, penso raro, questa volta non un libro ma una rivista.
Si tratta del numero 45, uscito l'8 Settembre 1878, del settimanale “L'illustrazione popolare” edito da F.lli Treves a Milano.
L'interesse sta nella data ed ovviamente nel contenuto.


Questo numero della rivista è uscito infatti un mese e quattro giorni dopo la morte del Marchese Giorgio avvenuta appunto il 4 Agosto del 1878.
E come ogni rivista “popolare” che si rispetti, tra le notizie di attualità, in questo numero, viene data appunto quella della morte del Pallavicino, dedicandogli due articoli ed un bellissimo ritratto di un marchese invecchiato, l'espressione stanca (confrontare con quello del 1860 ovvero di 24 anni prima).
Il primo articolo, inserito nella rubrica “Contemporanei celebri” è di fatto un necrologio e racconta, esaltandoli, i tratti salienti della vita patriottica del marchese.

Il secondo invece, nella rubrica “Brani scelti” non è altro che la pubblicazione di due lettere inedite di Giorgio Pallavicino, la prima al Municipio di Vienna a commento del sussidio che l'Italia voleva mandare al popolo viennese a seguito dei danni provocati da una inondazione. L'altra invece, dove il destinatario non è menzionato, che testimonia il puntiglio e l'estrema cura ed attenzione ai particolari che Pallavicino aveva nei confronti dei suoi scritti prima di pubblicarli, non disdegnando di 'umiliarsi' chiedendo persino un parere ai suoi più fedeli amici.

martedì 1 aprile 2008

Bonsai

"Non c'è da meravigliarsi che il Creatore, a quanto si dice, abbia fatto un passo indietro dopo aver formato l'uomo dalla polvere della Terra e avergli soffiato nelle narici un alito vitale, facendolo diventare un essere vivente. La cosa davvero strana fu che Adamo non si stupì."

Jostein Gaarder
da “Scacco matto Enigmi, fiabe e racconti”

Consigli per gli acquisti

Tra i quattro libri letti in marzo, due sono di Mauro Corona. Avevamo preso tramite amici un appuntamento con lui per andarlo a trovare ad Erto, dove vive e lavora. Ci siamo andati, ma all'ultimo momento il Mauro ci ha elegantemente bidonati. La bellezza arcana di Erto vecchia e delle montagne intorno (incluso il tragico Toc) e la gentilezza di quelli del Vajont (grazie Sergio!) hanno comunque riempito abbondantemente una stupenda giornata furlana.

Nel legno e nella pietra
di Mauro Corona
Mondadori
Sprazzi di poesia allo stato puro (“Verso i primi di maggio, mentre cantavano i cuculi in una giornata piena di sole, Sepp se ne andò! Morì d'improvviso, da solo, nella sua casa. Un colpo al cuore. Volò oltre con eleganza e in silenzio, come quel giorno sul passaggio chiave.”).Il libro contiene momenti di struggente amara tristezza (“La vita è un segno di matita curvo e sottile, che finisce ad un certo punto. Per molti è lungo, per altri corto, per altri non parte nemmeno. La gomma del tempo verrà poi a cancellare quel segno. Di noi non resterà nemmeno il ricordo”).Ma anche momenti di serena speranza.Corona narra ad esempio dei suoi anni alla cava di marmo del monte Buscada; di ciò che era diventato uno dei motivi forti per resistere ad un lavoro altrimenti da Cayenna, ovvero la speranza di trovare nei blocchi di marmo il cosidetto occhio di pescecane (fossile), raro quello nero, unico, quasi impossibile, quello azzurro. In ogni caso remuneratissimi dai collezionisti di città.Scavare, spaccarsi la schiena ad aprire i blocchi di marmo, sudare allo stremo sotto il sole cocente, con la speranza di scoprire un giorno o l'altro queste rarità e potere così smettere di lavorare per vivere da nababbo. Questa si che era motivazione!Mentre leggevo mi veniva in mente un parallelo. Anch'io strenuo instancabile lettore, mi sento uno scavatore antelitteram, tra milioni di libri in quelle cave di marmo che sono le librerie del mondo, alla ricerca dei miei occhi fossili di pescecane.Perlomeno neri, con speranza di azzurro!In questo libro di Corona ne ho trovati un paio, uno vicino all'altro, fatto rarissimo. Due tra i più brillanti e lucenti occhi neri di pescecane fossili che abbia mai trovato nella mia storia di scavatore di libri!Il primo narra di un modo ertano, che non c'è più, di vivere il capodanno. Pagine che brillano di luce intensa, che cominciano così: “Sulla montagna l'anno finiva nel grembo della neve, che lo prendeva per mano e lo accompagnava al di là di ciò che oramai era stato. E tornava con l'anno nuovo e, appena oltre il confine dell'ora, lo consegnava al mistero di altri dodici mesi........”Il secondo narra del vecchio sentiero che conduceva dal paese alla cava, quasi fosse un caro amico, oggi perduto per sempre; e si conclude così : “...Raccontavo questi episodi a mio figlio e un nodo mi serrava la gola. Non riesco a rassegnarmi che di quel tempo beato non sia rimasto nulla nemmeno il sentiero. Se ne sono andati tutti: gli amici, gli anni, la gioventù, l'entusiasmo, il modo di vivere di allora. Mi consolo pensando che la vita è una lunga serie di traslochi dove molto si perde ma qualcosa anche si trova. E allora tiro avanti, senza speranza e senza disperazione, aspettando serenamente l'ultimo trasloco.” Questi due brani, sei pagine in tutto, mi hanno reso un po' più ricco, dentro.

Finchè il cuculo canta
di Mauro Corona
Biblioteca dell'Immagine
Bello, magari non al livello degli altri, ma in perfetto stile Corona. Ne è valsa la pena se non altro per una storia, quella del corvo Franz, compagno e amico fedele di Corona per un tratto di viaggio, che si conclude con un'immagine commovente ed ironica al tempo stesso. “Non ho più allevato corvi. Il ricordo di Franz però mi tiene sempre compagnia. Quando scalo il campanile di Montanaja sale con me, volandomi vicino. Certe notti lo rivedo sul trespolo, silenzioso che mi controlla. A volte invece è triste, con la testa reclinata, come quando lo facevo bere.” Non so cosa avrei dato per assistere a queste bevute!

Il libro dei libri perduti
di Stuart Kelly
Rizzoli
Forse l'occhio azzurro fossile di pescecane che stò cercando avrei potuto trovarlo in uno di questi libri perduti! Che disastro. Kelly fa una veloce disamina storica alla caccia di flebili tracce di libri che avrebbero potuto entrare nella storia ma che per motivi diversi si sono invece persi nell'oblio. E' un libro intrigante, scritto da uno Sherlock Holmes letterario, che cerca di rendere ai libri perduti quantomeno un doveroso tributo.Tra di essi forse un altro capolavoro omerico, il Margite. Fu la prima opera di Omero, un poemetto comico incentrato su un eroe il cui nome significa “pazzo”. Kelly dice “Tra tutti i libri perduti, il Margite è il meno spiegabile, il più affascinante. Il suo autore era oggetto di una stima incommensurabile. Il poemetto era un pezzo unico tra le sue opere. Ma forse, solo forse, la sua scomparsa non deve addolorarci troppo. Quel che sparisce va reinventato. In mancanza di un'opera comica del più grande poeta di tutti i tempi, le generazioni successive hanno avuto la possibilità di immaginare commedie sarcastiche, sentimentali, capricciose......... Forse vale la pena di subire una perdita se a compensarla è un'esplosione di nuove forme”.Ciò che è sorprendente, è che non bisogna pensare ai libri perduti solo e soltanto di autori vissuti nel passato remoto. Abbiamo perso anche capolavori in fieri di autori più recenti come, per citarne solo qualcuno, Ezra Pound, Franz Kafka, Emil Zola, Fedor Dostevskij, Charles Dickens, Jane Austen e via dicendo, scivolando indietro nel tempo fino a William Shakespeare.Del bardo come sappiamo non esiste as esempio una biografia, ma molti frammenti di vita che consentono di ricostruirne i passi. Di sicuro però ci sono due buchi, gli anni tra il 1585 ed il 1592 e tra il 1613 ed il 1616. Questa vaghezza ha spinto molti addirittura a pensare che in realtà, dietro alla maschera del bardo si nascondessero invece altri personaggi tra i quali addirittura Francesco Bacone.Di sicuro sappiamo cosa oggi di Shakespeare non abbiamo. Ben tre opere: Pene d'amor conquistato (ma forse era un titolo alternativo di un'altra sua opera) il Pericle ed il Cardenio.

Scacco matto
di Jostein Gaarder
Longanesi
64 racconti, tanti quante le caselle di una scacchiera, selezionati da Gaarder tra le cose da lui scritte nel corso degli anni. Diciamo, per i fan di Gaarder, una sorta di Greatest Hits di questo scrittore norvegese. Ho comprato il libro senza avere mai letto nulla prima, nemmeno il suo libro più famoso ovvero “Il mondo di Sofia”.E' proprio da un racconto tratto da Il mondo di Sofia che emerge un quadro per me bellissimo di cos'è la filosofia.Gaarder dice che i filosofi sono quelli che non smettono mai di farsi domande su chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. E' come quando si assiste ad un gioco di prestigio. Non si riesce a capire come il prestigiatore abbia fatto ad estrarre un coniglio dal cappello quando poco prima c'erano dentro solo un paio di fazzoletti di seta bianca.Ma, ed ecco il più bel Post Scriptum che abbia mai letto, “per quanto riguarda il coniglio forse è meglio paragonarlo a tutto l'universo. Noi che ci abitiamo siamo minuscoli parassiti che vivono nella pelliccia del coniglio. I filosofi cercano di arrampicarsi sui peli sottili in modo da poter fissare negli occhi il prestigiatore”. Ho provato ad immaginare la scena!!