"Ogni lettore non è che un capitolo nella vita di un libro; se non tramanda la sua conoscenza ad altri è come se condannasse il libro ad essere sepolto vivo."
da una antica storia del deserto di Adrar (Mauritania Centrale)
Cristolu
di Salvatore Niffoi
Ed. Il Maestrale
Mi capita spesso di passare in rassegna gli scaffali di qualche grande libreria milanese senza una meta precisa, giusto per curiosare un poco e magari scoprire, per puro caso, qualcosa di interessante sfuggito alle modalità più tradizionali con le quali solitamente prendo informazioni e decido l'acquisto di un determinato libro.Tra i miei criteri di scelta non figurano fra l'altro nemmeno i premi letterari (preferisco non farmi condizionare a priori da giudizi cosiddetti “di qualità”) e qualche volta può essere una fregatura. Questa “criticabile” abitudine mi ha portato ad esempio in questo caso ad ignorare completamente, perlomeno fino a qualche giorno fa, un autore come Salvatore Niffoi, vincitore a quanto ora mi risulta di un Campiello nel 2006 ed autore di oltre mezza dozzina di romanzi.L'acquisto di Cristolu è stata un esperienza assolutamente particolare!Lo osservo sullo scaffale. Piccolo, fuori standard, piazzato di faccia anziché di costa, di un inusuale color marrone con una strana scritta in nero per titolo, “Cristolu”, a fianco di una bizzarra maschera di pietra raffigurante un personaggio grottesco, sicuramente un diavolo, ma dall'aspetto un po' comico, con un nasone immenso, baffoni e pizzetto!Lo prendo, me lo rigiro fra le mani cercando di cogliere qualche elemento in più. Le dita scorrono ora sui bordi, lentamente, quasi a prolungare l'attesa, poi finalmente lo apro. Gli occhi corrono a leggere il risvolto di copertina. Una pugno nello stomaco! Cito testualmente:“Mi chiamo Barore Suvergiu, noto Cristolu. Nato a Orotho il giorno 19 Febbraio 1850. Stato civile nubile e professione nessuna. Un po' frate e un po' bandito , questo lo decida chi leggerà un giorno la mia storia. Altezza un metro e sessantacinque senza i cosinzos, capelli pochi, occhi verdi e sempre tristi da quando il destino mi ha dato un calcio nel basso ventre e il Signore non è riuscito a trattenere la mia collera. Segni particolari: una cicatrice da forcipe sulla tempia sinistra e una da coltello sul fianco destro”.Vorrei chiamare all'appello tutti i pubblicitari d'Italia per vedere che voto danno ad un teaser del genere. Cristolu, già un nome curioso che sa un po' di blasfemo! Sembra trattarsi di un uomo (frate, bandito), ma è nubile! Che sia un errore, oppure in Barbagia, celibe o nubile non fa differenza? Cicatrice da forcipe? E' uno che ha cominciato a soffrire ancor prima di mettere fuori il naso dall'utero materno! Occhi verdi, tristi. E' il contrasto malinconico per antonomasia!Chissà che storia nasconderà! Lo compro, lo leggo, con una rapidità che non sperimentavo da tempo. Rimango strabiliato!All'inizio pensavo di essere incappato in una riedizione stampata di quel pezzo irresistibile di “Aldo, Giovanni e Giacomo”, dove Giovanni regge la scena praticamente da solo con quell'uso parodistico di un dialetto sardo chiaramente fasullo, estremo, duro e divertentissimo.Poi la catarsi. L'incipit vero, in cui Niffoi descrive una gelatinosa atmosfera novembrina che avvolge ed accompagna il parroco di Orotho, Don Frunza, novello don Abbondio, mentre si reca per la benedizione al camposanto di questo paese della Barbagia; un grandissimo pezzo di narrativa. Poi il sardo! Niffoi ne fa un uso viscerale quasi onomatopeico, come Camilleri del siculo.Storie di òmines e di èminas di questo strano paese si intrecciano intorno al diario di Barore Suvergiu, noto Cristolu, diario scoperto per caso (o forse no!) su una tomba, un po' in disparte rispetto alle altre, nel camposanto di Orotho; diario che tanto colpisce preti e vescovo barbaricini al punto da indurli ad utilizzarlo, al posto dei Vangeli, come lettura sulla quale basare il sermone domenicale.Il racconto di don Frunza sulla vita di Cristolu attirerà infatti i parrocchiani di Orotho come mosche sul latte, dopo che per diverse ragione tutti quanti avevano mostrato ormai da tempo segni di profonda insofferenza (e quindi di rinuncia) alla domenicale rievocazione (millenaria) della vita di Cristo.Il cuore (apocrifo) del racconto è il paragone latente fra due storie di un estremo sacrificio in nome degli altri: a favore di una piccola comunità barbaricina, quello di Cristolu, dell'intera umanità, quello di Cristo.Quindi nulla di nuovo a prima vista, solo una semplice metafora, se non che, poco alla volta, si scopre come il sacrificio avvenga con modalità diametralmente opposte: l'occhio per occhio di Orotho appare violentemente contrapposto al porgi l'altra guancia di Gerusalemme.Il parroco, contro tutto e tutti, istituzioni sacre e profane, famiglie barbaricine potenti e prepotenti, ne approfitta alla grande, allungando il brodo, centellinando i capitoli, creando ad arte le interruzioni, rimandando sul più bello alla puntata/domenica successiva. Un sequel magistralmente orchestrato fino a scoprire piano piano l'intera vicenda con un crescendo rossiniano di civica consapevolezza.
L'ozio come stile di vita
di Tom Hodgkinson
Rizzoli
Altro acquisto d'impulso. Per la verità questo libro ha sostato per parecchi mesi sullo scaffale della mia libreria che ospita i libri in lista d'attesa. Compro infatti molti più libri di quanto umanamente riesca a leggerne e quindi ho dovuto creare questa “piazzola di sosta” dove dirottare le “eccedenze”. Per di più, un libro con questo titolo non poteva che meritarsi un po' di ozioso sano riposo, nonostante il titolo rappresentasse, rispetto al lavoro del suo autore, un curioso ossimoro che predisponeva a non prendersela così tanto comoda.Ma come disse Oscar Wilde, “non far niente è il lavoro più duro di tutti”!Come sempre, se non si conoscono né libro né autore, è il risvolto di copertina ad incitare al misfatto. Leggere che l'ozio ha avuto grandi ed autorevoli cantori, da Russel a Whitman, da Stevenson a Nietzsche e Byron, è stato più che sufficiente ad incuriosirmi. Comprato!Il libro è in effetti un po' snob e anacronistico, certamente ironico, assolutamente “rilassante”.Snob perché è una voce fuori dal coro di un mondo dominato dall'etica del lavoro, dall'efficienza e dal consumismo. Anacronistico perchè, seguendo il filo delle dotte citazioni, sembra quasi di immergersi "languidamente" in un passato remoto scomparso per sempre nell'oblio. Ironico per alcuni punti di vista in difesa dell'ozio portati evidentemente all'esasperazione. “Rilassante” perché racconta, con dovizia di richiami a personaggi famosi, la giornata tipo dell'ozioso partendo dal primo capitolo intitolato “Svegliarsi è dura” passando per “Lavori e dolori” tergiversando su “L'arte della conversazione” e concludendo con “Un sogno ad occhi aperti”.Da “I pensieri oziosi dell'ozioso” di J.K.Jerome un assaggio dello spirito del libro: “Ah come è delizioso voltarsi dall'altra parte e tornare a dormire, proprio solo per cinque minuti. Io mi domando: esiste un essere umano, a prescindere dall'eroe delle scuole domenicali, che si alzi sempre volentieri?”Poi la sveglia. “Quale genio malvagio ha riunito questi due nemici giurati dell'ozio, l'orologio e l'allarme, in un unico dispositivo? Non solo alzarsi presto è del tutto innaturale, ma io voglio affermare che restarsene a letto mezzo addormentati, gli studiosi del sonno chiamano ipnagogico questo stato, è estremamente benefico per la salute e l'umore.” E via “filosofeggiando” fino all'ora di pranzo, con l'imperversare nefasto del fast food a danno della cultura del pranzo tradizionale che durava, nel bel tempo andato, da due a tre ore. Poi gli oziosi che guardano con orrore ai MacDonald o agli Starbucks. I caffè del XXI secolo sono in effetti molto diversi da quelli del XVIII secolo che erano luoghi d'ozio per eccellenza. Quando, in piena rivoluzione industriale furono introdotte tasse sulla vendita della birra, rendendo illegali i pub privi di autorizzazione ufficiale, William Cobbett (politico, agricoltore, giornalista) iniziò una campagna a favore dei pub, sostenendo che la loro chiusura era un segno evidente della miseria e della decadenza prodotta dall'industrializzazione. “Un tempo il pub aveva la funzione di centro della comunità: offriva un locale aperto a tutti dove persone le cui case erano probabilmente troppo modeste per ricevere gli amici potevano discutere liberamente, bere a volontà e fare baldoria. Ci si fa un'idea chiara di come la Rivoluzione Industriale stesse eliminando il divertimento dalla vita”. Cobbet riteneva che gli elementi essenziali di una vita felice fossero le tre B: “Bread, Beer and Bacon” (!). E Chesterton dopo di lui scriveva “Certamente sacrificheremmo tutti i nostri cavi, gli ingranaggi, i sistemi, le specialità, la scienza fisica e la frenetica finanza per una mezzora di felicità come quella che abbiamo vissuto spesso con degli amici in una comunissima taverna”.Altro capitolo, forse il più bello ed ironico, quello sulla passeggiata quotidiana. Provo ad esprimere il concetto in forma matematica.Sia X una persona normale ed Y un ozioso. Nello spostamento di X da A a B l'importante per X è B, ovvero la meta. Nello spostamento di Y da A a B per Y ciò che conta è AB ovvero il tratto fra A e B, non importa né da dove si parte né dove si vuole andare.Credo che questo renda molto bene il punto.Walter Benjamin, filosofo radicale, era particolarmente attratto dalla figura del flaneur francese, traducibile con bighellone oppure ozioso, che stava ad indicare la figura elegante del distinto perdigiorno che amava passeggiare senza scopo sotto i portici parigini, osservando, indugiando, ciondolando. Figura il cui eroe era ad esempio Baudelaire, invidiato per essersi liberato dalla schiavitù del salario e quindi libero di girovagare senza meta per le vie di Parigi.Ebbene Benjamin ci regala questa perla:“Nel 1839 era elegante portare una tartaruga andando a passeggio. Il che da un'idea del ritmo del flaneur nei passages (di Parigi ndr)”.“Una tartaruga al guinzaglio! Che meraviglia. Di sicuro più rasserenante di un cane iperattivo che annusa, abbaia, sbuffa, urina, strattona.”Grande!
Antologia di Spoon River
di Edgar Lee Masters
Einaudi
E' un classico (è stato scritto agli inizi del secolo scorso) che ho letto solo oggi e che invece avrei potuto leggere anni fa se solo avessi avuto allora la curiosità di indagare un po' più a fondo sull'ispirazione lirica di quello che considero uno degli album più belli composti da un grandissimo tra i poeti contemporanei, Fabrizio De Andrè.Ricordavo infatti, fino ad un paio di mesi fa, solo poche cose legate a Spoon River ed al suo autore, entrambe filtrate dalla musica che ascoltavo nei primi anni settanta. La prima è appunto lo stupendo album del Faber intitolato “Non al denaro, non all'amore...” composto da nove brani i cui testi sono ispirati da nove epitaffi che DeAndrè ha pescato (a mio avviso migliorandoli!) in Spoon River; la seconda è una fugace citazione nella “Canzone per Piero” dove Francesco Guccini canta “E' in gamba sai, legge Edgar Lee Master......”.Ma forse è stato meglio così. Uno perché ho rispolverato oggi dopo tanto tempo il disco del Faber e me lo sto riascoltando da almeno un paio di settimane.Due perché leggere le poesie di Lee Masters con questa colonna sonora di sottofondo, è un'esperienza piacevolissima.Tre perché oggi, al contrario di quando mi sono imbattuto in Spoon River per la prima volta, non ho più a che fare con la visione quasi epica della vita che potevo avere, adolescente, nei primi anni settanta, contaminato per di più dalle illusioni intellettualoidi di qualche amico sessantottino più grande di me. Ovviamente oggi, attraversando una fase più realista dell'esistenza, mi sento in maggior sintonia con lo spirito scarno ed asciutto di questa stupenda raccolta di poesie.Ci ho messo due mesi a leggere l'intera Antologia. Nulla di strano perché questo è secondo me il destino di un libro di poesia. Distillarne goccia a goccia il contenuto. Tenerselo a tiro per molto tempo, leggerne magari solo una o due pagine per volta, assaporarne il contenuto lentamente, gustandone le pieghe, i dettagli, i minimi risvolti. Il ritmo della poesia è per definizione da andamento lento.Nell'Antologia Edgar Lee Masters snocciola 19 storie che coinvolgono un totale di 244 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. In ogni poesia ciascun personaggio, dalla propria tomba sulla collina di Spoon River, racconta al mondo in forma di epitaffio il senso della propria vita o della propria morte. Si dice che l'autore abbia tratto ispirazione osservando i suoi concittadini, gente realmente vissuta nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield.Leggo dall'introduzione della bellissima edizione Einaudi un commento di Cesare Pavese, uno dei primi estimatori di Lee Masters."Come i morti di Dante , che sono più vivi che in vita, i morti di Spoon River prolungano in una forma sepolcrale tutti i loro malcontenti, le loro passioni. Ma il parallelo si ferma qui, poiché i morti di Dante hanno uno schema universale in cui rientrano e nessun dannato si sogna di criticare la propria destinazione, mentre quelli di Spoon River nemmeno da morti han trovato una risposta, e meno di tutti quelli che lo dicono."