Bonsai

Que otros se jacten de las paginas que han escrito; a mi me enorgullecen las que he leido
El lector - Jorge Luis Borges
“Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto”

domenica 1 giugno 2008

BONSAI

"Chi mai può evocare con la sola parola la potenza spaventosa di un temporale estivo che si scatena improvviso in aperta campagna? O il misterioso spettacolo della pianura avvolta nella nebbia pulita, o l'emozione di una grande nevicata nel cuore della notte invernale, quando tutta la natura sembra acquattarsi sotto la tempesta dei fiocchi di neve, che trasfigura ogni luogo, ogni ruscello vuoto d'acqua, ogni pianta, e le strade spariscono e tutto rimane fermo e prigioniero... Intanto le robuste voci dei conducenti della “lesa” (1) si perdono in lontananza; e il bambino che sente, nel caldo rifugio del suo letto, dice tutto contento nel sonno: “Mama, fioca!” (2)

da “Lettere milanesi” di Mario Zambarbieri

(1) lesa = la slitta spazzaneve trainata da cavalli
(2) Mama, fioca! = Mamma, nevica!

Walt Whitman

I sit and look out

Mi siedo e osservo la tristezza del mondo, l'oppressione e la vergogna
Ascolto i segreti e i convulsi pianti di giovani uomini, l’angoscia per se stessi, il rimorso per il male fatto
Vedo, l’infima vita, i figli maltrattare le proprie madri, moribonde, abbandonate, trascurate, disperate;
Vedo i mariti abusare delle mogli, vedo infidi seduttori di giovani donne
Sento il bruciore della gelosia e dell’amore non corrisposto, che cerca di restare nascosto
Vedo questi posti sulla terra
Vedo l’avanzare della battaglia, della pestilenza, della tirannia vedo i martiri e i prigionieri
Osservo la carestia sul mare, osservo i marinai tirare a sorte chi dovrà essere ucciso per salvare la vita agli altri
Osservo l’obliquità ed il degrado dello sguardo di persone arroganti verso gli operai, i poveri, i negri, i propri simili;
Tutto ciò, tutta la meschinità e l’agonia senza fine
Mi siedo, guardo oltre, ascolto....e non ho più parole.
(mia traduzione)

Consigli per gli acquisti

Ogni lettore non è che un capitolo nella vita di un libro; se non tramanda la sua conoscenza ad altri è come se condannasse il libro ad essere sepolto vivo.da una antica storia del deserto di Adrar (Mauritania Centrale)

L'ingegnere in blu
di Alberto Arbasino
Adelphi

Libro che avrei potuto tranquillamente lasciare sepolto vivo, senza per questo essere assalito da particolari sensi di colpa. Ne parlo perchè, comunque sia, come avrebbe scritto Arbasino stesso, qualcosa di utile il parlarne può stimolare, da un banale “se lo conosci lo eviti” ad un più sfidante “voglio comunque toccare con mano”. Mi sono avvicinato ad Arbasino perchè viene generalmente considerato insieme a Magris uno degli intellettuali più raffinati tra i contemporanei. Mentre di Magris ho letto abbastanza, di Arbasino nulla almeno fino a un mese fa. Se devo giudicare da questo libro, dico che avrei fatto bene a perseverare nella mia beata ignoranza. Romanziere sofisticato, espressionista come lui stesso preferisce definirsi rifuggendo l'attribuzione datagli da altri di scrittore barocco (attribuzione che invece personalmente considero quanto mai azzeccata).E' il libro più faticoso che abbia mai letto in vita mia. Non ho mai visto un periodare così arzigogolato, barocco appunto, quasi rococò, infarcito di dotte citazioni, magari in tre lingue diverse in un paragrafo di sole quattro righe. Certamente una cultura enciclopedica, ma una capacità per converso pressochè nulla di trasmettere qualcosa al lettore, perlomeno al sottoscritto. Pesco a caso per dare solo un piccolo insignificante esempio di ciò che è stato per me in realtà questo libro (un criterio più razionale non avrebbe cambiato il risultato):“Programmi di variorum da archivi orali, sopratutto di scuola ecclesiastica e diplomatica; come nei migliori memoires. Gli spasimi nelle ambasciate francesi alla vigilia della guerra, nel '40. Sotto apparenze di finta calma, preziosi monili depositati da un'insigne duchessa per la visita a Sua Santità, ma trafugati nella cassaforte da spie in cerca di codici e cifre. Pranzi affidati a un giovane segretario già 'coqueluche' alla moda di Chanel che volendo rifare i pranzi parigini in voga con pittoresche verdure e non la solita frutta nei centri-tavola acquista dei broccoletti arcimboldeschi presto pestilenziali, con svenimenti sotto la smoccolatura delle candele colorate..” Ai posteri l'ardua sentenza! Il libro voleva essere, forse, un omaggio ad uno dei maestri riconosciuti di Arbasino ovvero Carlo Emilio Gadda (l'ingegnere appunto) poeta e scrittore tra i più noti del nostro novecento, maestro del quale Arbasino si compiace d'esser stato definito (forse autodefinito), insieme a Pasolini e Testori, uno dei tre nipotini! Dico forse un omaggio perchè, persino nella descrizione del soggetto del libro è palese un barocchismo estremo che non so quanto avrebbe potuto realmente compiacere il maestro, cui la frase era diretta: “La vera grandezza dell'ingegnere consiste nell'aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni “come le foglie”, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all'uso parossistico della madornale figura retorica dell'enumerazione”. Sembrerebbe un alto elogio, ma ...... piuttosto che un elogio così....“alto”, preferirei personalmente ricevere lo sberleffo di una bertuccia. In compenso devo però ringraziare Arbasino di avermi ricordato un gustosissimo aneddoto sui miei amici bergamaschi, campioni di contrazione linguistica, che il maestro Gadda raccontava disquisendo della forza dei dialetti, portando ad esempio l'erosione dell'etimo vinum latino, in vino (italiano), vin (milanese), vi (bresciano)....e finalmente 'i' (l'abominevole bergamasco!).


La paura e la speranza
di Giulio Tremonti
Mondadori

Non sono mai stato un grande estimatore di Giulio Tremonti, più per una questione “fisica”, di pelle, che morale o intellettuale. Quell'aria un po' secchiona, da primo della classe, tutto perfettino, una strana cacofonia in quella sua esile vocina, la erre blesa, una certa supponenza nelle relazioni col suo prossimo, tutte caratteristiche che comportano solitamente un gravame fastidioso sugli zebedei. Ho vinto la iniziale riluttanza più che altro perchè incuriosito da quella parolina in fondo al titolo del suo ultimo libro. Che mai avrà in testa uno “zuccone” come Tremonti per parlare di speranza in uno dei momenti più difficili e pieni di incertezza della storia dell'uomo sulla terra?Quello che ne esce è, incredibile a dirsi, un Tremonti NO GLOBAL!! Ovviamente non nel senso di combattere a mazzate, molotov e bolognini la globalizzazione, considerata invece giustamente qualcosa di ineluttabile, ma nel senso di capirne le ragioni, imparare a conviverci, gestendola a nostro vantaggio ovvero evitando di rimanerne schiacciati e annientati.Questa è infatti, secondo il professore, la destinazione della cara vecchia Europa se continuerà ad agire, o meglio a non agire, come ha fatto fino ad oggi. Europa come l'Angelus Novus di Klee con la testa rivolta all'indietro mentre il vento del progresso la trascina altrove.Una analisi lucidissima delle cause della crisi in cui stiamo per tuffarci o siamo già immersi, una visione catastrofista ma con brio, ovvero con una ipotesi di soluzione in tasca che lascia appunto un po' di speranza.Le economie emergenti che escono dal circuito chiuso tipico della civiltà agricola/contadina affacciandosi su quello aperto dell'economia di mercato fanno crescere la domanda di beni primari, laddove l'offerta rimane invariata. Effetto: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Paradossalmente il sabato usciamo da un supermercato con poco nel carrello e con 100 euro in meno nel portafoglio, ma ciononostante possiamo permetterci di andare il giorno dopo a berci un irish coffe a Dublino con meno di 40 Euro (irish coffe incluso!). Il superfluo low cost, il necessario high cost! E' il fantasma della povertà materiale che trascina con se anche quello della povertà spirituale. “Abbiamo più telefonini, ma abbiamo meno bambini. Stiamo consumando il futuro dei nostri figli!”. La crisi finanziaria si accompagna al disastro ambientale ed alle tensioni geopolitiche per il controllo delle risorse energetiche. Perchè la speranza? Uno perchè dovremmo essere in grado di gestire la globalizzazione visto che siamo noi che l'abbiamo generata, a partire dall'illuminismo basato sulle idee fino al mercatismo basato sugli interessi. Due perchè l'Europa ha già vissuto e superato momenti di intensa rivoluzione e trasformazione. Il più simile a questo, anche se di segno contrario fu l'entrata dell'Europa nel nuovo mondo (oggi è un nuovo mondo che entra nell'Europa). Tre perchè la risposta alla globalizzazione non è economica (valore secondo) ma politica (valore primo) che si rifaccia alle radici “giudaico-cristiane” dell'Europa medesima. E' in parte vero ciò che afferma Blair, ovvero che la dialettica politica oggi non può più essere tra destra e sinistra, ma fra apertura o chiusura alla globalizzazione. Ma è contemporaneamente anche falso perchè la storia prosegue con la globalizzazione e con la storia proseguono, anche se “in forme nuove e non più ideologiche, la storica necessaria semplificazione della realtà nella dialettica tra la sinistra e la destra”. E via con una diagnosi interessante sul crollo della veterosinistra, dei suoi stereotipi e dei suoi paradigmi. Per sopravvivere alla globalizzazione bisogna andare cioè dalla parte opposta alla sinistra. Ma obiettivamente nemmeno verso la destra tantomeno verso una destra di vecchio stampo. E'un ritorno alle radici che indica Tremonti come soluzione. L'Europa è stato fino ad oggi un continente che ha vissuto ed è stato capace di gestire rivoluzioni una dietro l'altra: commerciale, urbanistica, monetaria, grafica, protestante, francese, scientifica, industriale, musicale, artistica. “Ora non è più così. L'Europa unificata dalla moneta (penultima rivoluzione) e allargata a Est (ultima rivoluzione) ci si presenta infatti esausta, non più in grado di fare altre rivoluzioni”. Eppure serve un'altra rivoluzione per contrastare la globalizzazione che è di per se una rivoluzione che però, questa volta, non viene da dentro e non si fa dentro, ma viene da fuori. E infine la ricetta Tremonti, un po' meno argomentata della diagnosi, ma perlomeno apprezzabile nell'intento. Non la svelo. Sarebbe come di un giallo svelare l'assassino a chi il giallo non l'ha ancora letto. L'unica cosa che posso dire è che il colpevole non è il maggiordomo!


Il sessantotto al futuro
Mario Capanna
Garzanti

Come potevo farmi mancare, nel maggio 2008, un'elegia di un altro ben più famoso maggio, quarant'anni prima, quello del '68? Lui nega, dal prologo all'epilogo, ma traspare ovunque, evidente talvolta, subliminale tal altra, una struggente nostalgia di quei “formidabili anni”.Anni di un movimento studentesco di cui Capanna, qui dotto e fine dicitore molto più di quanto ricordassi, è sicuramente stato, in Italia, come Cohn-Bendit in Francia, uno degli indiscussi leader. Nostalgia negata da una parte ma giustificata dall'altra citando ad esempio Bertolucci “Mi rifuto di pensare alla nostalgia come ad una parolaccia. Tre quarti della grande letteratura attingono da li”. O ancora, sempre con Bertolucci “Alla sera andavamo a dormire sapendo che ci saremmo svegliati nel futuro, che avremmo partecipato a cambiare il mondo”. E via dicendo fra i ricordi “Fummo felici si. Ovviamente non facemmo il '68 per divertirci. Ma oltre la fatica, i rischi, i prezzi pagati, è vero che ci siamo divertiti un fottio!”. Oppure ancora il richiamo ai simboli forti del '68 come ad esempio il nero Tommie Smith con il pugno alzato sul podio olimpico. E ancora il '68 e i suoi presunti figli legittimi o meno, il terrorismo nel '78, l'edonismo reganiano nell'88, il tangentismo nel '98 e cos'altro oggi , nello '08? Ed ancora dotte citazioni, da Agostino padre della Chiesa, ad Orwell per dire che “Chi controlla il passato controlla anche il futuro”! Non nega, Mario Capanna, perfino gli errori del '68 anche se, citando Orazio “velut si egregio inspersos reprendas corpore naevos” tende a minimizzarli in quanto sarebbe “come se in un bel corpo si andassero a notare gli sparsi nei”. Ed ecco il gran colpo finale, il '68 visto come il symbolon (tessera, segno di riconoscimento) degli antichi greci ovvero “l'oggetto che veniva spezzato in due, metà per contraente, per denotare il legame di amicizia tra famiglie o città, o per essere ricomposto al termine di un viaggio o di una separazione”. Il '68 come simbolo della storia, perchè spezza e insieme unisce il percorso delle vicende umane.
“Un cammino che fu cominciato, e venne interrotto. A maggior ragione va ripreso". Se non è nostalgia questa!

Alle cinque della sera

La poesia non è un'espressione... È il tempo di notte, dormire nel letto, pensiero di quello che realmente pensi, rendere il mondo privato pubblico, ed è questo che il poeta fa (Allen Ginsberg)

A clear midnight
This is thy hour O Soul,
thy free flight into the wordless,
Away from books, away from art,
the day erased, the lesson done,
Thee fully forth emerging, silent,
gazing, pondering
the themes thou lovest best,
Night, sleep, death and the stars.
Walt Whitman

Una mezzanotte limpida
Questa è la tua ora, oh anima,
il tuo volo libero in un mondo senza parole
lontano dai libri, lontano dall'arte,
il giorno cancellato, la lezione finita
da te elevarsi, silenziosamente,
in ammirazione, riflettendo
sui temi che hai amato di più,
notte, sonno, morte e le stelle.
Walt Whitman

(traduzione mia)

Fotografando


Foto GZ_2008 Ritorno alla natura
San Fiorano: Vecchia corte

Scorci di Laudiade

Brevi spunti di storia del lodigiano (in latino Laudias che, con enfasi più epica, diventa Laudiade) con particolare attenzione al mio paese natale, San Fiorano.


Ancora una volta il poema del Gabiano “Laudiade” mi ha permesso di risalire ad un momento, tanto “poetico” quanto interessante, un vero e proprio scoop sulla storia del mio paese natio, San Fiorano. Nel libro I, dalla riga 694 alla 704, si apprende come nel XVI secolo i sanfioranesi fossero conosciuti, anche oltre i confini del lodigiano, per un importante mestiere, incredibile a dirsi, che molti di loro svolgevano: il mestiere dell’apicoltore! Secondo il Gabiano era infatti famoso, prelibato e richiestissimo il miele prodotto a quei tempi in tre paesi del lodigiano ovvero Meleti (esplicita l’assonanza) Mairago e per l’appunto San Fiorano. Quest'ultimo, aveva qualcosa in più rispetto agli altri due (o perlomeno questo è ciò che mi piace leggere tra le righe). Forse per i campi pieni di fiori particolarmente adatti ad una florida apicoltura, le api di San Fiorano erano ancor più famose delle altre per il consistente contributo alla produzione della rinomata “bionda cera” sanfioranese utilizzata per la produzione delle candele in tutto il circondario. Tralascio, per non tediare, la versione latina originale della Laudiade e passo direttamente alle due traduzioni, la prima ‘libera’, la seconda letterale. Ecco cosa scrive il Gabiano:

“Dell’api vostre le flaventi cere
Il rugiadoso mel ditelo voi,
o Meleti, Mairago e San Fiorano:
Crema lo sa, lo sanno le vicine
Cittadi e quei che nei brumali giorni
Confetti e chicche preparando vanno
Si dolce miel non vanta Imetto ed Ibla
Qual ti danno l’api nostre che del salcio
Suggono i fiori. Qui del miele il regno.”


La libera traduzione mette insieme i tre paesi come produttori di miele e cera e non rende invece giustizia a San Fiorano come unico produttore di quest’ultima. Cosa che invece si percepisce “più chiaramente” nella traduzione letterale che segue, dove nella terza riga il riferimento esplicito è ai “tuoi sciami” (quelli di San Fiorano) e non ai “vostri sciami” (quelli eventualmente dei tre paesi), anche se mi rendo conto che questa può apparire una forzatura dettata dalla ricerca di qualcosa di esclusivo e da un po’ di sano campanilismo (da storico dilettante me lo posso permettere!):

“Racconta tu, o Meleti dal dolce nome del miele,
racconta tu, o verdeggiante Mairago, racconta o San Fiorano
delle bionde cere e del rugiadoso miele dei tuoi sciami.
Lo sa Crema, non lo ignorano le città vicine
Lo sanno tutti coloro che, nei giorni d’inverno lavorano i dolci da dessert.
Un miele di questo genere non produrrà l’Imetto o l’Ibla di Teseo,
quale quello che qui l’ape laboriosa produce saziandosi del fiore del saliceto
Potrai dire che qui c’è il regno odoroso del miele:
difatti la melissa, la cassia, la cerinta, il sermolino
e l’erba profumatissima del Timbra non mancano tra i nostri
fiori, che spandono odore nei giardini tinti di croco.”

La fama come si vede valica i confini dell’Adda ed arriva fino a Crema ed alle città vicine. Ma soprattutto in quei luoghi arriva il miele di San Fiorano, utilizzato dalle pasticcerie cremasche per fabbricare gli squisiti dolci di cui Crema appunto va fiera. Ci vorrebbe in realtà il soccorso di un’analisi più scientifica che aiutasse nell’interpretazione, ma per il momento quello che c'è mi sembra sufficiente e certamente di per se intrigante. Com’è sufficiente ed intrigante, per il momento, quanto Giovanni Agnelli (non l'avvocato ma lo storico lodigiano!) ci racconta nel suo “Dizionario storico geografico del lodigiano”, in un volo indietro nel tempo di oltre un millennio, a proposito di un’altra delle occupazioni vitali dei sanfioranesi, diffusa nel borgo qualche secolo prima che diventassero apicoltori. Siamo intorno all’anno mille ed a leggere l’Agnelli, scopriamo una San Fiorano rivierasca, magari non una fiorita San Remo, ma di sicuro un villaggio di pescatori, abili barcaioli, che alimentavano i poveri deschi delle loro case con il buon pesce pescato nel Lago Barilli (o dei Barilli, od Oriolo o Lambrello) di cui San Fiorano era appunto insieme a Fombio, Guardamiglio , Santo Stefano e forse Somaglia uno dei quattro o cinque paesi costieri (non è chiarissimo infatti se da Somaglia in realtà si dipartiva semplicemente un ramo del Lambro che poi andava a formare il lago oppure se era il lago stesso a lambire questo paese). Leggendo gli scarsi frammenti disponibili su questo pezzo di storia del territorio di San Fiorano si ha per la verità la strana sensazione che, semmai fosse per noi possibile, in una sorta di viaggio temporale, ritrovarci a solcare lentamente le acque del lago Barilli a bordo di una grande barca sanfioranina, ci troveremmo più probabilmente immersi tra le dense brume e le umide nebbie di una vasta e tetra palude medievale, magari non del tutto salubre, e non sulle azzurre acque di un ridente laghetto. Che invece il Barilli fosse ricco di pesce sembra proprio fuori discussione. Riporto integralmente un brano tratto sempre dal “Dizionario” dell’Agnelli che ci spiega qualche fatterello legato a questo lago, che tale rimase per più di tre secoli, prima di prosciugarsi (o di essere prosciugato).
“Fra i beni che il conte Ilderado da Comazzo donò al Monastero di San Vito da lui fondato verso il mille, si fa cenno eziandio di un luogo detto Sorlago vicino a San Fiorano, col lago e col ruscello che scorre nel fiume Lambro . L’anno 1226 venne decisa una lite a favore della Mensa Vescovile di Lodi da Ajolfo priore del convento di San Marco di Lodivecchio, quale delegato del Pontefice Onorio III, contro Enrico Conte di Montecucco che si era da tempo impossessato di questo lago: era già stato, sino dal 1224, pronunciato una sentenza in proposito a favore del Vescovo di Lodi; ma il Conte, lungi dall’abbandonare l’usurpata proprietà, ripetea nuovamente il possesso di questo lago, dell’alveo e di nove piedi attorno alla ripa incominciando da Fellegario di Monte Oldrato, o Somaglia, ove il lago aveva principio, infino ad un luogo vicino a San Stefano, ove terminava, appellato Gualdafreddo de Cucullo. Portata la decisione avanti alla corte di Roma: quel Pontefice delegò il priore Ajolfo al giudizio, il quale, recatosi sulla riva dello stesso lago, né comparendo lo stesso Enrico, lo condannò in contumacia, dandone al Vescovo il formale possesso col leggere la sentenza sulla riva stessa del Lambro. Verso il 1300 il Vescovo Egidio dell’Acqua affittò le ragioni di pescare nel lago per il censo di 40 soldi annui e 10 libbre grosse di pesce.”
Come un lago, verosimilmente vasto fra settanta e ottanta chilometri quadrati, scomparve e come sia scomparso (sembrerebbe che ciò sia avvenuto tra il 1311 ed il 1351) è tutta un’altra storia da raccontare. In effetti in quegli anni attraverso un'opera assidua di prosciugamento si ridusse notevolmente la terra coperta da acque lasciando a secco una boscaglia di circa 5000 pertiche, parte a bosco e parte a palude. L'Agnelli ci ricorda che il vecovo di Lodi Fra Luca Castelli l'anno 1351 donò questa boscaglia ai poveri di Codogno, onde vi si recassero a pascolare ed a far legna. L'opera di bonifica prosegui per più di un secolo. Sempre l'Agnelli conferma che nel 1492, proprio nell'anno in cui Colombo scopriva l'America, i sanfioranesi e gli altri abitanti della zona completarono la costruzione di un cavo scolatore detto Guardalobbia allo scopo di concludere definitivamente il prosciugamento e la bonifica della zona paludosa rimasto nell'area dell'ex lago. Ho provato, con l’ausilio di un po’ di tecnologia, a tracciare quello che verosimilmente poteva essere il profilo costiero del Lago Barilli (in realtà ho utilizzato semplicemente le mappe della superficie terrestre rilevate dal satellite e caricate nel programma web Google Earth). Qui sotto un primo risultato del quale non sono ancora però del tutto soddisfatto. Da alcune osservazioni preliminari posso desumere che il Lago non fosse più profondo di 8 o 10 metri. Presumo infatti che la riva potesse trovarsi fra i 48 ed i 50 metri sopra il livello del mare mentre il punto più basso dovesse trovarsi in prossimità delle Regone (le cascine) nella bassa sanfioranese, tra i 39 ed i 41 metri sul livello del mare. Questo al netto di possibili sommovimenti di terra avvenuti negli ultimi sette secoli dopo il prosciugamento e la messa a coltura dell’area allora sommersa dalle acque. Poco più di una palude, sono propensi a dire gli storici! A me piace pensarlo come un ridente laghetto solcato dalle grandi barche dei sanfioranesi che al largo gettavano le reti sotto un magnifico caldo sole di mezza estate ed in attesa di essere ripagati con una abbondante pesca, frutto della loro fatica, ammiravano in lontananza, oltre il grande fiume, le prime propaggini dell’Appennino stagliarsi contro il limpido cielo azzurro di tanto, tanto tempo fa.
Dis.2008 Ricostruzione in Google Earth del Lago Barilli

Antiqua

In questo spazio voglio tener traccia di alcuni fatti salienti e commentare alcuni dei "risultati" prodotti da uno dei miei hobbies degli ultimi anni, l'acquisto, principalmente su e_bay, di libri antichi (ovvero libri con almeno100 anni di vita). E' per me un piacere incredibile tenere un libro antico tra le mani, sfogliarne con cura ed amorevole attenzione le pagine per non accelerare l'inevitabile processo di degrado, sentire tra le pagine l'acre profumo dei secoli. Al di la di ciò che racconta, al di la del contenuto, un libro porta sempre con se la sua storia, il suo vissuto personale intrinseco, una traccia degli avvenimenti in cui è stato immerso nel suo cammino fino a noi, un pezzo della vita di chi lo ha letto e lo ha riposto all'interno della propria casa.Elementi questi che ne fanno un oggetto "vivo".

The War of the Nations (Portfolio)
Ed. New York Times
New York City (NY) 1919
Uno splendido libro fotografico sulla I Guerra Mondiale uscito nel 1919 dalle rotative del New York Times prodotto con una tecnica particolare denominata Rotogravure Etchings overo stampa di alta qualità ottenuta con un cilindro di rame su rotoli di carta speciale. Il risultato è una serie di stupende immagini alle quali, l'effetto seppia, da un senso profondo ed emozionante di tempo che fugge. Sono 528 pagine king-size (28mm x 40mm) con più di 2000 immagini di diverse dimensioni, dalla foto formato tessera alla gigantografia su due pagine, che raccontano diverse storie di paesi, nobiltà, miseria, popoli, distruzioni e macerie. In poche parole un passaggio rapido sull'umanità in uno dei momenti più orribili quale solo la guerra può essere. Il libro è suddiviso di fatto in capitoli con una comune dimensione che è quella geografica. Le prime 92 pagine sono esclusivamente fotoritratti a partire dal bel faccione di Woodrow Wilson, 28 presidente degli Stati Uniti, a tutti i protagonisti al comando della nazioni in guerra; potremmo definirlo l'album di famiglia dei Signori della Guerra. Da questo capitolo ho estratto un piccolo campionario, composto da alcuni dei nomi più rappresentativi per ogni nazione, giusto per dare un'idea della magnificenza e del realismo che si respira scorrendone le pagine.


Nicola II Zar di tutte le Russie (1894-1917)


Giorgio V Re d'Inghilterra e Imperatore d'India (1910-1936)


Alberto I Re del Belgio (1909-1934)


Vittorio Emanuele III Re d'Italia (1900-1946)


Francesco Giuseppe Imperatore d'Austria e Re d'Ungheria (1848-1916)


William S.Sims Ammiraglio Comandante della flotta degli Stati Uniti


Ferdinand Foch Maresciallo francese

Si sa, le guerre sono sempre associate ai grandi nomi e personaggi della storia, ma sono in realtà combattute dalla gente comune, mai nominata, sconosciuta, spesso persino non sopravvissuta ad essa. Ho voluto estrarre dalle numerosissime foto di questo libro, associandole a quelle dei re e degli imperatori, due immagini significative di gente comune, l'esuberanza dei vincitori da una parte, l'umiliazione dei vinti dall'altra. A ben guardare da vicino i singoli volti in quella moltitudine di prigioniei tedeschi non è difficile leggere il sollievo di essere sopravvissuti al massacro e la contentezza di poter forse tornare presto alla vita di tutti i giorni dalle proprie famiglie.


Militari australiani mentre costruiscono un ponte sospeso su un canale di fronte alla Piramide di Giza


Prigionieri tedeschi in attesa di conoscere la propria destinazione.

Gli altri capitoli del libro dedicati alle operazioni militari snocciolano brani di guerra sui diversi fronti da quello occidentale a quello orientale, dall Francia, ai Balcani, dai Dardanelli alla Mesopotamia. Immagini di folle impaurite, di soldati sporchi e spossati, di trincee, di città, di palazzi rasi al suolo. Moltissime foto di soldati a cavallo! Non pensavo che la I Guerra Mondiale fosse stata ancora una guerra “a cavallo”. Con un editore come il New York Time è scontato che lo stile con cui sono esposte le immagini e trattati gli argomenti è uno stile giornalistico che punta allo scoop, alla curiosità, ovvero a tutto ciò che fa notizia nella notizia. Per cui, al di là delle foto che immortalano i grandi momenti di incontro tra i potenti della terra, immagini di cronaca di gente comune, di momenti di vita vissuta. Ad esempio le foto, le immagini della cerimonia funebre e delle tombe dei primi tre soldati americani morti nella grande guerra. Il libro mi arriva da una cittadina del Maryland, Dickerson, 50 miglia nord ovest da Washingon DC lungo il corso del Potomac River, il Fiume della Nazione che attraversa la capitale staunitense.