Ogni lettore non è che un capitolo nella vita di un libro; se non tramanda la sua conoscenza ad altri è come se condannasse il libro ad essere sepolto vivo.da una antica storia del deserto di Adrar (Mauritania Centrale)
L'ingegnere in blu
di Alberto Arbasino
Adelphi
Libro che avrei potuto tranquillamente lasciare sepolto vivo, senza per questo essere assalito da particolari sensi di colpa. Ne parlo perchè, comunque sia, come avrebbe scritto Arbasino stesso, qualcosa di utile il parlarne può stimolare, da un banale “se lo conosci lo eviti” ad un più sfidante “voglio comunque toccare con mano”. Mi sono avvicinato ad Arbasino perchè viene generalmente considerato insieme a Magris uno degli intellettuali più raffinati tra i contemporanei. Mentre di Magris ho letto abbastanza, di Arbasino nulla almeno fino a un mese fa. Se devo giudicare da questo libro, dico che avrei fatto bene a perseverare nella mia beata ignoranza. Romanziere sofisticato, espressionista come lui stesso preferisce definirsi rifuggendo l'attribuzione datagli da altri di scrittore barocco (attribuzione che invece personalmente considero quanto mai azzeccata).E' il libro più faticoso che abbia mai letto in vita mia. Non ho mai visto un periodare così arzigogolato, barocco appunto, quasi rococò, infarcito di dotte citazioni, magari in tre lingue diverse in un paragrafo di sole quattro righe. Certamente una cultura enciclopedica, ma una capacità per converso pressochè nulla di trasmettere qualcosa al lettore, perlomeno al sottoscritto. Pesco a caso per dare solo un piccolo insignificante esempio di ciò che è stato per me in realtà questo libro (un criterio più razionale non avrebbe cambiato il risultato):“Programmi di variorum da archivi orali, sopratutto di scuola ecclesiastica e diplomatica; come nei migliori memoires. Gli spasimi nelle ambasciate francesi alla vigilia della guerra, nel '40. Sotto apparenze di finta calma, preziosi monili depositati da un'insigne duchessa per la visita a Sua Santità, ma trafugati nella cassaforte da spie in cerca di codici e cifre. Pranzi affidati a un giovane segretario già 'coqueluche' alla moda di Chanel che volendo rifare i pranzi parigini in voga con pittoresche verdure e non la solita frutta nei centri-tavola acquista dei broccoletti arcimboldeschi presto pestilenziali, con svenimenti sotto la smoccolatura delle candele colorate..” Ai posteri l'ardua sentenza! Il libro voleva essere, forse, un omaggio ad uno dei maestri riconosciuti di Arbasino ovvero Carlo Emilio Gadda (l'ingegnere appunto) poeta e scrittore tra i più noti del nostro novecento, maestro del quale Arbasino si compiace d'esser stato definito (forse autodefinito), insieme a Pasolini e Testori, uno dei tre nipotini! Dico forse un omaggio perchè, persino nella descrizione del soggetto del libro è palese un barocchismo estremo che non so quanto avrebbe potuto realmente compiacere il maestro, cui la frase era diretta: “La vera grandezza dell'ingegnere consiste nell'aver risolto i suoi possibili Buddenbrook milanesi rifiutando ogni naturalismo crepuscolare, ogni elegia autunnale, ogni “come le foglie”, ricorrendo invece con gusto esplosivo e disperato all'uso parossistico della madornale figura retorica dell'enumerazione”. Sembrerebbe un alto elogio, ma ...... piuttosto che un elogio così....“alto”, preferirei personalmente ricevere lo sberleffo di una bertuccia. In compenso devo però ringraziare Arbasino di avermi ricordato un gustosissimo aneddoto sui miei amici bergamaschi, campioni di contrazione linguistica, che il maestro Gadda raccontava disquisendo della forza dei dialetti, portando ad esempio l'erosione dell'etimo vinum latino, in vino (italiano), vin (milanese), vi (bresciano)....e finalmente 'i' (l'abominevole bergamasco!).
La paura e la speranza
di Giulio Tremonti
Mondadori
Non sono mai stato un grande estimatore di Giulio Tremonti, più per una questione “fisica”, di pelle, che morale o intellettuale. Quell'aria un po' secchiona, da primo della classe, tutto perfettino, una strana cacofonia in quella sua esile vocina, la erre blesa, una certa supponenza nelle relazioni col suo prossimo, tutte caratteristiche che comportano solitamente un gravame fastidioso sugli zebedei. Ho vinto la iniziale riluttanza più che altro perchè incuriosito da quella parolina in fondo al titolo del suo ultimo libro. Che mai avrà in testa uno “zuccone” come Tremonti per parlare di speranza in uno dei momenti più difficili e pieni di incertezza della storia dell'uomo sulla terra?Quello che ne esce è, incredibile a dirsi, un Tremonti NO GLOBAL!! Ovviamente non nel senso di combattere a mazzate, molotov e bolognini la globalizzazione, considerata invece giustamente qualcosa di ineluttabile, ma nel senso di capirne le ragioni, imparare a conviverci, gestendola a nostro vantaggio ovvero evitando di rimanerne schiacciati e annientati.Questa è infatti, secondo il professore, la destinazione della cara vecchia Europa se continuerà ad agire, o meglio a non agire, come ha fatto fino ad oggi. Europa come l'Angelus Novus di Klee con la testa rivolta all'indietro mentre il vento del progresso la trascina altrove.Una analisi lucidissima delle cause della crisi in cui stiamo per tuffarci o siamo già immersi, una visione catastrofista ma con brio, ovvero con una ipotesi di soluzione in tasca che lascia appunto un po' di speranza.Le economie emergenti che escono dal circuito chiuso tipico della civiltà agricola/contadina affacciandosi su quello aperto dell'economia di mercato fanno crescere la domanda di beni primari, laddove l'offerta rimane invariata. Effetto: aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. Paradossalmente il sabato usciamo da un supermercato con poco nel carrello e con 100 euro in meno nel portafoglio, ma ciononostante possiamo permetterci di andare il giorno dopo a berci un irish coffe a Dublino con meno di 40 Euro (irish coffe incluso!). Il superfluo low cost, il necessario high cost! E' il fantasma della povertà materiale che trascina con se anche quello della povertà spirituale. “Abbiamo più telefonini, ma abbiamo meno bambini. Stiamo consumando il futuro dei nostri figli!”. La crisi finanziaria si accompagna al disastro ambientale ed alle tensioni geopolitiche per il controllo delle risorse energetiche. Perchè la speranza? Uno perchè dovremmo essere in grado di gestire la globalizzazione visto che siamo noi che l'abbiamo generata, a partire dall'illuminismo basato sulle idee fino al mercatismo basato sugli interessi. Due perchè l'Europa ha già vissuto e superato momenti di intensa rivoluzione e trasformazione. Il più simile a questo, anche se di segno contrario fu l'entrata dell'Europa nel nuovo mondo (oggi è un nuovo mondo che entra nell'Europa). Tre perchè la risposta alla globalizzazione non è economica (valore secondo) ma politica (valore primo) che si rifaccia alle radici “giudaico-cristiane” dell'Europa medesima. E' in parte vero ciò che afferma Blair, ovvero che la dialettica politica oggi non può più essere tra destra e sinistra, ma fra apertura o chiusura alla globalizzazione. Ma è contemporaneamente anche falso perchè la storia prosegue con la globalizzazione e con la storia proseguono, anche se “in forme nuove e non più ideologiche, la storica necessaria semplificazione della realtà nella dialettica tra la sinistra e la destra”. E via con una diagnosi interessante sul crollo della veterosinistra, dei suoi stereotipi e dei suoi paradigmi. Per sopravvivere alla globalizzazione bisogna andare cioè dalla parte opposta alla sinistra. Ma obiettivamente nemmeno verso la destra tantomeno verso una destra di vecchio stampo. E'un ritorno alle radici che indica Tremonti come soluzione. L'Europa è stato fino ad oggi un continente che ha vissuto ed è stato capace di gestire rivoluzioni una dietro l'altra: commerciale, urbanistica, monetaria, grafica, protestante, francese, scientifica, industriale, musicale, artistica. “Ora non è più così. L'Europa unificata dalla moneta (penultima rivoluzione) e allargata a Est (ultima rivoluzione) ci si presenta infatti esausta, non più in grado di fare altre rivoluzioni”. Eppure serve un'altra rivoluzione per contrastare la globalizzazione che è di per se una rivoluzione che però, questa volta, non viene da dentro e non si fa dentro, ma viene da fuori. E infine la ricetta Tremonti, un po' meno argomentata della diagnosi, ma perlomeno apprezzabile nell'intento. Non la svelo. Sarebbe come di un giallo svelare l'assassino a chi il giallo non l'ha ancora letto. L'unica cosa che posso dire è che il colpevole non è il maggiordomo!
Il sessantotto al futuro
Mario Capanna
Garzanti
Come potevo farmi mancare, nel maggio 2008, un'elegia di un altro ben più famoso maggio, quarant'anni prima, quello del '68? Lui nega, dal prologo all'epilogo, ma traspare ovunque, evidente talvolta, subliminale tal altra, una struggente nostalgia di quei “formidabili anni”.Anni di un movimento studentesco di cui Capanna, qui dotto e fine dicitore molto più di quanto ricordassi, è sicuramente stato, in Italia, come Cohn-Bendit in Francia, uno degli indiscussi leader. Nostalgia negata da una parte ma giustificata dall'altra citando ad esempio Bertolucci “Mi rifuto di pensare alla nostalgia come ad una parolaccia. Tre quarti della grande letteratura attingono da li”. O ancora, sempre con Bertolucci “Alla sera andavamo a dormire sapendo che ci saremmo svegliati nel futuro, che avremmo partecipato a cambiare il mondo”. E via dicendo fra i ricordi “Fummo felici si. Ovviamente non facemmo il '68 per divertirci. Ma oltre la fatica, i rischi, i prezzi pagati, è vero che ci siamo divertiti un fottio!”. Oppure ancora il richiamo ai simboli forti del '68 come ad esempio il nero Tommie Smith con il pugno alzato sul podio olimpico. E ancora il '68 e i suoi presunti figli legittimi o meno, il terrorismo nel '78, l'edonismo reganiano nell'88, il tangentismo nel '98 e cos'altro oggi , nello '08? Ed ancora dotte citazioni, da Agostino padre della Chiesa, ad Orwell per dire che “Chi controlla il passato controlla anche il futuro”! Non nega, Mario Capanna, perfino gli errori del '68 anche se, citando Orazio “velut si egregio inspersos reprendas corpore naevos” tende a minimizzarli in quanto sarebbe “come se in un bel corpo si andassero a notare gli sparsi nei”. Ed ecco il gran colpo finale, il '68 visto come il symbolon (tessera, segno di riconoscimento) degli antichi greci ovvero “l'oggetto che veniva spezzato in due, metà per contraente, per denotare il legame di amicizia tra famiglie o città, o per essere ricomposto al termine di un viaggio o di una separazione”. Il '68 come simbolo della storia, perchè spezza e insieme unisce il percorso delle vicende umane.
“Un cammino che fu cominciato, e venne interrotto. A maggior ragione va ripreso". Se non è nostalgia questa!