Bonsai

Que otros se jacten de las paginas que han escrito; a mi me enorgullecen las que he leido
El lector - Jorge Luis Borges
“Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto”

sabato 1 marzo 2008

Bonsai

Uno degli slogan recitati (urlati) contro i docenti dell'Università di Heidelberg nel '68 era “Hier wird nicht zitirt” ovvero “Niente citazioni qui”. Gli studenti chiedevano originalità di pensiero dimenticando però che citare è un continuo conversare con il passato per dare un contesto al presente”
Albert Manguel da “La biblioteca di notte”

“Chi legge, chi ci dice quello che legge, chi gira rumorosamente le pagine del proprio libro, chi ha il potere sull'inchiostro rosso e nero e sulle figure. Sono essi a condurci, a guidarci e a mostrarci la via”
da Codice Azteco del 1524 (presso gli Archivi Vaticani)

Scorci di Laudiade

Brevi spunti di storia del lodigiano (in latino Laudias che, con enfasi più epica, diventa Laudiade) con particolare attenzione al mio paese natale, San Fiorano.

Come dice lo storico lodigiano Giovanni Agnelli nel suo Dizionario del 1886, San Fiorano "si vuole fabbricata l'anno 222 avanti Cristo, appena vinti i Galli o poco prima della calata di Annibale, da Gneo Floriano, generale romano."
Ioannes Iacobus Gabianus, poeta nato nel 1510 a Romanengo (CR), ma lodigiano di adozione (morì a Lodi nel 1580), ci dà invece una variante, appunto poetica, dell'origine di San Fiorano e del suo nome. Nel Poema in latino intitolato "Laudias" da lui composto tra il 1574 ed il 1579, dedica infatti a San Fiorano il seguente esametro:

"Hinc Sanfloranus, quem iam Florentia misit,
Qui Floram nec non floralia foeda Quiritum
Tempsit et ornauit sacras melioribus aras
Floribus et iussit Floranum dicier almum
Sanfloranum hodie fas mercatoribus ire
Hebdomadae quoties sexta aduentauerit Eos"

Gli esametri del Laudias furono liberamente tradotti in numerose varianti. Riporto di seguito, per quello riguardante San Fiorano, le due che per ora ho rintracciato:
1) Quella più poetica (vedi Giovanni Agnelli 1886 "Dizionario storico e geografico del Lodigiano" che cita la traduzione in endecasillabi di Guadagni e Ronzon del 1880)
"Da lui che venne di Fiorenza, e i turpi
Di flora calpestò romulei riti
E gli altari abbellì di casti fiori
E' detto San Fiorano; e qua s'affollano
Di venere nel giorno i mercatanti"

2) Quella più prosaica anche se fedelmente letterale (vedi Alessandro Caretta 1994 "La Laudiade Introduzione, testo, traduzione ....")
"Di qui c'è poi S.Fiorano, che mandò un tempo Firenze,
che disprezzò Flora ed i turpi floralia dei Quiriti
ed adornò gli altari con fiori ben migliori
ed ordinò che il paese venisse detto San Fiorano.
Ai commercianti è lecito oggi frequentare San Fiorano
ogni qual volta la sesta Aurora settimanale ritorni"

Antiqua

In questo spazio voglio tener traccia di alcuni fatti salienti e commentare alcuni dei "risultati" prodotti da uno dei miei hobbies degli ultimi anni, l'acquisto, principalmente su e_bay, di libri antichi (ovvero libri con almeno100 anni di vita). E' per me un piacere incredibile tenere un libro antico tra le mani, sfogliarne con cura ed amorevole attenzione le pagine per non accelerare l'inevitabile processo di degrado, sentire tra le pagine l'acre profumo dei secoli. Al di la di ciò che racconta, al di la del contenuto, un libro porta sempre con se la sua storia, il suo vissuto personale intrinseco, una traccia degli avvenimenti in cui è stato immerso nel suo cammino fino a noi, un pezzo della vita di chi lo ha letto e lo ha riposto all'interno della propria casa.Elementi questi che ne fanno un oggetto "vivo".

Questa volta non si tratta di un libro ma di due oggetti, una litografia del 1860 e tre pagine estratte dalla Raccolta dei Regi Decreti del 1881.
Cominciamo dal primo, la litografia.
Raffigura il Marchese Giorgio Trivulzio Pallavicino, patriota, carbonaro, amico di Garibaldi (fu con lui a Teano), prodittatore di Napoli, prefetto di Palermo, eletto senatore subito dopo l'unità d'Italia.

Perchè comprarla?
Perchè il Marchese Giorgio è fortissimamente legato ad un piccolo paese della bassa lodigiana, non lontano dalle anse che il grande fiume Po forma dopo la città di Piacenza. Questo paese è San Fiorano ed è il mio paese natale.
All'inizio del XVI secolo, per l'esattezza nel 1543, tutta la proprietà di San Fiorano passò alla famiglia milanese dei Trivulzio; fino al 16 maggio 1645 quando Giangiorgio Pallavicino acquistò l'intero feudo e diede inizio al dominio della sua casata sul paese. Il più illustre discendente della famiglia Pallavicino fu per l'appunto il Marchese Giorgio, signore di San Fiorano per buona parte del XVIII secolo .
Un nobiluomo, amato dai sanfioranesi, che nel 1903, nel venticinquesimo della sua morte, ne hanno voluto onorare la memoria erigendo al centro del paese un bellissimo busto bronzeo dello scultore codognese Annibale Monti con una targa e la seguente scritta:
IL COMUNE INAUGURAVA SOLENNEMENTE LA CARA E BUONA IMMAGINE PATERNA DEL MARCHESE GIORGIO PALLAVICINO TRIVULZIO CHE DOPO XIIIII ANNI DI MARTIRIO ALLO SPIELBERG E NELL'ERGASTOLO DI GRADISCA VIDE FATTO REALTA' IL SOGNO ARDENTE DE' SUOI GIOVANI ANNI E CONTRIBUI' AD ATTUARLO QUANDO PRODITTATORE PER IL GENERALE GARIBALDI A NAPOLI PROMOSSE IL PLEBISCITO CHE LA FECE ITALIANA (MCMIII)
E' stato relativamente facile rintracciare la linea genealogica di questa nobile famiglia. A partire dal capostipite Orlando il Magnifico padre di Pallavicino, e via, di padre in figlio, passando da Galeazzo I ad Adalberto, da Galeazzo II a Sforza Pallavicino. Quest'ultimo va considerato il vero e proprio capostipite del ramo Pallavicino Trivulzio, signori appunto di San Fiorano, estinti nella linea maschile nel 1878 con il Marchese Giorgio, nato il 24 aprile 1796 e morto il 4 agosto 1878. Giorgio Pallavicino fu sepolto nella cripta di famiglia situata sotto la chiesa parrocchiale di San Fiorano, chiesa sulla quale esercitava diritto di "patronato".
Ecco la litografia del 1860 pervenutami da un privato di Brescia.


Ho trovato sul sito del Senato della Repubblica Italiana negli Atti Parlamentari/Discussioni del 4 febbraio 1879, ovvero esattamente 6 mesi dopo la sua morte, questo accorato elogio funebre che traccia un profilo esaustivo pur se sintetico del Marchese Giorgio.

Signori Senatori.
Devo richiamare alla vostra pietà i nomi di otto Colleghi che la morte ha da noi divisi nel tempo che vòlse dalle ferie estive e autunnali sino a questi ultimi dì. Essi furono, nell’ordine necrologico: [...] il marchese Giorgio Guido Pallavicino-Trivulzio [...] Tardi vengo a compiere il sacro debito; non perché io me ne stessi finora indolente; ma perché, specialmente per taluni de’ primi defunti, tardi mi arrivarono certe notizie che avevo chieste e che faceva d’uopo aspettare. [...] Il marchese Giorgio Guido Pallavicino Trivulzio, di antica stirpe e magnifica, nacque a Milano li 24 aprile 1796. Finiva appena i sette anni quando morivagli il genitore. Alla sua educazione si è consacrata la madre Anna Besozzi, donna di alti sensi, che di certo avea letto il libro del più sapiente dei Re, dove dice: «ammaestra il fanciullo, secondo la via che ha da tenere; egli non si partirà da essa, non pur quando sarà diventato vecchio» (1).Costei proibiva ai domestici di dare al fanciullo il titolo di marchese; proibiva che lo aiutassero nelle ordinarie bisogne; lo assuefaceva a severa frugalità; non gli consentiva altre letture che di storici e di oratori de’ bei tempi di Atene e di Roma. Innamorato di que’ tempi e di quelle gesta, amaramente sdegnavasi di vedere l’Italia divisa e serva; né sapeva darsi pace degli indugi e delle difficoltà a romperne le catene. Visitò, giovanissimo, le principali contrade d’Europa. I viaggi non gli mutarono l’animo. Tornò a Milano più deliberato che mai a faticare per la redenzione della patria. Federico Confalonieri lo aggregava alla Società segreta dei Carbonari, la Federazione; fortemente intesa al fine giusto, pio, necessario, di preparare le menti e le armi alla cacciata dello straniero. Intanto alla rivoluzione napolitana del 1820 erano succeduti i commovimenti piemontesi del ‘21. Il Confalonieri meditava invitare il Principe di Carignano, Carlo Alberto, ad entrare con buona mano di soldati nella Lombardia, e bandirvi la guerra all’Austria: di che, non permettendogli la mala salute di porgere l’invito personalmente, diede il mandato a Giorgio Pallavicino; il quale, si prese a compagno un altro de’ federati, Gaetano Castillia. Amendue i messaggieri giunsero difilato alle tende de’ dragoni insorti a Novara, e di là procedettero a Torino. Il Principe li accolse molto benignamente: ma non ascose che scarso era l’esercito; arduo il cimento; nessuna probabilità che le Alte Potenze lo fossero per tollerare. Conchiudeva: “speriamo nell’avvenire”. Reduce a Milano, e avvertito che la Potestà avea saputo della sua andata agli Stati del Re, il Pallavicino riparò nella Svizzera. Poco appresso, rimpatriò; o che a cotesto lo sospingesse l’amore della madre, o l’ansia di nuovamente accontarsi coi congiurati. Sennonché, nel dicembre di quello stesso anno, una pattuglia di gente d’armi rifrustava la casa di Gaetano Castillia; e ghermitagli una carta, cui diede epiteto di «sospetta», immediatamente lo incarcerò. Onde il Pallavicino, avvisandosi (comeché erroneamente) che della peripezia dell’amico fosse cagione la gita con seco fatta a Novara e a Torino, di proprio moto comparve al cospetto della Polizia, così ricisamente affermando: «Io trascinava il Castillia in Piemonte: se quel viaggio è delitto, io solo sono il colpevole; io solo merito pena» (2). L’atto magnanimo è miseramente riuscito al Processo di alto tradimento, e alla Sentenza della Commissione speciale di Milano, che inorridì tutti i cuori. Invano le tenebre coversero i libri dell’immane Processo. Le tristizie dei giudici; le violenze, le torture patite dagli accusati; le trame ordite d’attorno a’ testimoni; le confessioni poste in bocca agli inconsapevoli…tutto è già manifesto; e nessuna diuturnità di tempo ne farà immemori gli Italiani.La Sentenza, che uscì nel gennaio 1824, ha condannato il Confalonieri, il Pallavicino, e Gaetano Castillia (senza ch’io noveri gli altri) alla pena della morte, da doversi eseguire colla forca. L’Imperatore, confermata la Sentenza per via di Giustizia, commutò per via di Grazia la pena nel carcere duro, da espiarsi nella Fortezza dello Spielbergo, in quanto a Confalonieri per tutta la vita, in quanto a Pallavicino e Gaetano Castillia per anni venti. A udire la lettura pubblica della Sentenza i condannati han dovuto, in catene, a testa nuda, salir la gogna, davanti al popolo abbrividito e sgomento. Ma in quell’ora fu scritto in cielo che nella regione Lombardo-Veneta il dominio straniero era impossibile.Chi diede voce che sulle prime Giorgio Pallavicino, mal sapendo schermirsi dalle insidie degli inquisitori, si fosse macchiato di qualche rivelazione, fu sbugiardato dal più accorto notomista degli Atti, l’Imperatore: il quale a un maggiorente, che intercedeva per nome della madre di Giorgio, in questi termini resistette: «Mi duole di non poter concedere la Grazia ch’ella domanda: questa volta sono costretto a usar rigore. Ma Pallavicino è un eroe... Io chiamo eroismo il sacrificio: e il Pallavicino si è sacrificato per salvare i suoi compagni”» (3) . Taccio le asperità, le sevizie dello Spielbergo. Niuno di noi non ha pianto sulle pagine di Silvio Pellico, di Pietro Maroncelli, e su quelle stesse del nostro Pallavicino. - Non a torto egli ha scritto, che «la Rocca Moràva era un sepolcro, - senza la pace de’ morti».Negli ultimi mesi del 1830 il Pallavicino infermò di nervi sì fieramente che parea quasi perduto di corpo o di spirito. Ne ha riferito a Vienna il protomedico della provincia, attestando la urgente necessità di mandare il malato a un clima men rigido. Il Rescritto si fece attendere per oltre un anno. Di poi capitò l’ordine del trasferimento all’ergastolo di Gradisca. Non erano costà le distrette minori punto o diverse da quelle di prima. - Per soprassoma, al nuovo venuto assegnarono a camerata un vecchio villano della Carniola, di forme atletiche, di voglie ladre, sentenziato a perpetuo carcere come reo di molto rapine. - Sento in cuore il ribrezzo della lurida compagnia; né più mi reggo a contare i morsi della fame, onde è notorio che Giorgio a Gradisca fu per morire. La miserrima prigionia non ebbe termine se non dopo un altro giudizio: il giudizio di Dio su Francesco d’Absburgo [sic]. Era stato poc’anzi il Pallavicino traportato [sic] a Lubiana. Di qua, toltigli i ferri, lo relegarono a Praga. Più tardi, fu restituito a Milano in figura di sorvegliato dalla Polizia. Sul finire del ‘47, e all’entrare del ‘48, invitato a cospirare contro l’Austria, non volle; ma, fedele alla sua bandiera, rispose facessero capitale di lui e di ogni cosa sua nel giorno della battaglia; e intanto dispose di 50 mila lire per dar pane agli artisti e agli operai che non avessero lavoro. Venuto il momento della prova, combatté col popolo nelle cinque giornate. Durante il Governo Provvisorio, si studiò di giovare la patria con tutti i mezzi ch’erano in poter suo. Dopo il precipizio delle cose nostre, tornava con tanti altri in esilio; e dapprima fu in Francia, ove raccomandò invano l’Italia al generale Cavaignac...(4) . Fermata poi sua dimora tra i liberi Subalpini, sedette alla Camera elettiva, nella 2a Legislatura pel 3o Collegio di Genova; nella 5a e nella 6a pel 2o Collegio di Torino. Pigliò parte alla discussione di alquanti schemi di legge. Nel 1854, a quello delle modificazioni all’ordinamento della guardia nazionale; e all’altro delle modificazioni ed aggiunte al Codice penale: nel ‘55, a quello del prestito di 40 milioni; e a quello della soppressione delle Corporazioni religiose; e all’altro della Convenzione militare coll’Inghilterra e la Francia per la guerra di Crimea: nel giugno ‘57, a quelli della Leva, e delle modificazioni alla legge di reclutamento: e nel ‘58, a quello delle pene per la cospirazione contro i Sovrani esteri, e per l’apologia dell’assassinio politico.Nel frattempo, il 15 gennaio 1855, si associava all’interpellanza di Angelo Brofferio, chiedente una politica di aperta rivoluzione. Ma il suo vero campo non era alla Camera. Persuaso che nessuna parte d’Italia potrebbe reggersi in libertà se tutte non si stringessero in un solo fascio, in una sola famiglia; convinto che l’unità non fosse possibile di raggiungerla salvoché sotto lo scudo e la guida della dinastia di Savoia; pose opera, ingegno, ardore infinito, pose tutto sé stesso, a raccogliere i patrioti intorno a questo vessillo «Italia e Vittorio Emanuele». Disperava di vincere le riluttanze di Giuseppe Mazzini. Non disperò di trarre alla propria fede il Dittatore, che fu di Venezia, Daniele Manin, il quale aveva tanto séguito tra i repubblicani della Penisola, e, nel suo esilio a Parigi avea guadagnato alla nostra causa la simpatia di virtuosi cuori, di potenti intelletti. Fu eccelso il disegno; lungo lo studio; il cammino pieno di triboli. Bisognava dar di frego a mille screzî, a mille gelosie; ammorzare molte ambizioni; colmare un subisso di diffidenze. Certo è che il Manin, allora solo si accostò a quel programma, quando Parigi e tutta Europa riseppero di che antico valore avea dato prove alla Cernaia il piccolo esercito dei Subalpini. Allora si avvide che ai regî del ‘48 e del ‘49 non avea fatto difetto se non la fortuna. Allora presagì che i soldati di Vittorio Emanuele erano degni di doventare i soldati d’Italia. E allora scrisse “…Se l’Italia rigenerata debbe avere un Re, non debb’essere che un solo, e non può essere che il Re di Piemonte” (5). Permettetemi, o Signori, di credere che, se non era la gran concordia inaugurata da Giorgio Pallavicino e secondata da Daniele Manin, il conte di Cavour non avrebbe condotto il Piemonte a quella sfida, per la quale il 1859 fu preludio ed auspicio della nostra epopea. Nel detto anno ‘59 il Pallavicino, non che prodigare ogni fatta soccorsi, suggeriva audaci spedienti da crescere le schiere de’ volontari. Benché non ascoltato, sempre perseverò nelle liberalità le più sollecite, le più fruttuose. - Né, l’anno appresso, furono punto da meno gli entusiasmi e gli aiuti di lui alla portentosa spedizione dei Mille. Chiamato a Napoli dal Garibaldi, vi assunse l’ufficio di Prodittatore. Trovò divisi gli spiriti. Altri bolliva di voglie repubblicane: altri di regi amori. Altri portendeva la unità dell’intera nazione: altri il federalismo. E questi oravano per la proroga dei poteri del dittatore: e quelli per la convocazione di una Costituente: e molti per la immediata designazione di un Principe. E chi al Principe eletto avrebbe dato la Corona: e chi la sola Reggenza. Era urgente pigliare un partito terminativo. A ciò la formula del plebiscito, indetto dal Prodittatore pel 21 ottobre: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e suoi legittimi discendenti?» La più meravigliosa maggioranza di voti, da un capo all’altro dell’ex-Reame, ha affermato la formula. Da quel dì si è potuto annunziare al mondo civile che «l’Italia è risorta». Issofatto il conte di Cavour scriveva per telegramma al Pallavicino «L’Italia esulta per lo splendido risultato del plebiscito, che al suo senno, alla sua fermezza, e al suo patriottismo è in gran parte dovuto. Ella si è acquistato così nuovi e gloriosi titoli alla riconoscenza della nazione» (6). E il Re gli ha conferito, massimo degli onori, il Collare dell’Annunziata.Nella prirnavera del 1862, pregato da Urbano Rattazzi, il Pallavicino andò Prefetto a Palermo, dove gli antichi autonomisti ponevano ogni giorno a pericolo la pace pubblica. Niuno meglio di lui, apostolo efficacissimo della unità, potea bastare ad infrenar i riottosi: e poiché a tale intento occorreva, innanzi ogni cosa, sinceramente e saldamente attuare le libertà statutarie, a tutt’uomo e’si ingegnò di incarnarle in ogni membro, in ogni ramo della Amministrazione. Tra poco approdava a Palermo il Garibaldi. Intonato da lui, suona ovunque il nome della eterna città: e alla volta di questa ei giura lanciarsi, a sconficcarvi la doppia balìa di Napoleone e del Papa. Stava il Pallavicino in tra due. Prefetto, avrebbe dovuto obbedire al Governo, che gli ingiungeva di sconsigliare, di attraversare il tremendo conato. Intimissimo del Generale e impaziente al pari di lui, sedotto sentivasi a condiscendergli. Ma frattanto, cessatogli il titolo prefettizio, si ricondusse alle provincie settentrionali, cercando compenso alle fatiche, alle angoscie politiche, negli ozî campestri e nelle dolcezze della famiglia. Era fin dal febbraio del 1860 Senatore del Regno; e nel febbraio del ‘61 nominato Vice-Presidente. Tenendo gli occhi continuamente alla meta suprema dell’unità, anche nell’Assemblea Senatoria, avea messo avanti infiammati propositi, che, per quantunque alle temperie e alle condizioni di allora non apparissero confacenti, lasciavano pur sempre profonde impressioni, e suscitavano il desiderio di quandochessia satisfarli. Sopra tutto egli instava che il paese si facesse forte nelle armi di terra e di mare, e si affermasse risolutissimo di far valere a ogni costo, incontro ad ogni pericolo, la sua maestà di Nazione.Nella Tornata dell’8 giugno 1860 avea combattuto la cessione di Nizza alla Francia; e nel 6 luglio dell’anno medesimo avea perorato pel prestito dei 150 milioni. Poi, nell’aprile del ‘63, domandava che, in omaggio del domma unitario, il Codice Penale Sardo si estendesse eziandio alla Toscana; e nel 6 dicembre ‘64 avversava la Convenzione pel trasferimento della Capitale a Firenze. Non mi è noto che d’indi innanzi abbia più posto piede in Senato. Pur troppo, non glielo consentivano la instante vecchiaia e l’affralita salute. Nondimeno, dal tranquillo ritiro di San Fiorano o di Genestrelle i suoi pensieri notte e dì si affisavano nella Nazione. E quando più si mostravano irosi i dibàttiti, e le gare le invidie le gelosie delle parti politiche minacciavano di soprastare al vero e sommo bene della libertà e della patria, egli interponea la sua voce, e con mòniti brevi, ma fermi e inflessibili, i contendenti richiamava al Vangelo dei plebisciti. In questi ultimi anni, a poco a poco, ogni lena corporea lo abbandonò. Ma rimaneagli desto e pronto lo spirito; specie, a discorrere dei primi studî e delle corse vicende: talché la moglie e la figlia, che intentamente gli stavano accosto, non ismisero mai la illusione che almeno un fil di vita preserverebbe ancora quel caro capo alle affettuose loro sollecitudini. Quand’ecco, inopinatamente, nel pomeriggio del 4 agosto del ‘78, «Non come fiamma che per forza è spenta, Ma che per sè medesma si consume, se ne andò in pace l'anima contenta»(7) Immenso, ogni dove, il corruccio. Per varî giorni le ali del telegrafo non ebbero tregua: tanti erano i dispacci qui e là. Il Re, i Presidenti delle due Camere, i Ministri, i Municipî di Milano, di Torino, di Napoli, di Palermo, ed altri parecchi, e le più ragguardevoli Associazioni politiche non vollero indugiare un istante a far palese l’acerbità del comune rammarico per lo sparire di lui, che, in tutta la lunghezza dell’età sua, con fede ardentissima, con ferreo carattere, con costanza imperterrita, era venuto mostrando come debbasi amare e come soccorrere il paese natìo, massime se questo paese ha nome “L’ Italia!”
Nella Biblioteca Senatoria abbiamo di Giorgio Pallavicino i libri e gli opuscoli che accenno: “Lettere scritte a Vincenzo Gioberti” negli anni 1850-‘51-‘52; “Scritti politici sulla questione italiana”, 1855; “Non bandiera neutra!” 1856; “Epistolario politico 1855-‘57 del Pallavicino e Daniele Manin, con note e documenti”; “Della questione romana”, 1863; “Tre lettere politiche”, ottobre e novembre 1865 ; “Non disarmo!” marzo 1866.
La città di Torino, custodirà, prezioso legato, gli autografi che il Pallavicino avea di Gioberti, di Manin, di Guglielmo Pepe, e di altri illustri. Le Memorie, ch’ei compendiò della vita sua e de’ suoi tempi, correranno in istampa per diligenza della vedova riconoscente.
E la figlia degnissima la marchesa Anna d’Angrogna, se ne andrà altiera che il padre abbia voluto commettere alla sua fede (oh quale ricordo!) la posata di legno di che servivasi nello Spielbergo. Salomone, Proverbi, XXII, 6. Trad. del Deodati. Atto Vannucci. I martiri della libertà italiana. Ed. Treves, Milano, 1872, pag. 218.
Atto Vannucci, ib. Nota a pag. 219. Atto Vannucci, ib. Pag. 221. Lettera a Giorgio Pallavicino, 9 novembre 1855. Epistolario politico Manin e Pallavicino, per E. Maineri. –Milano, Tip. Bertolotti, 1878, pag. 5. Isaia Ghiron – I benemeriti della unità e della indipendenza d’Italia. – Milano, Ed. Battezati, 1877, pag. 61. Petrarca, Trionfo della morte, I, 160. Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 4 febbraio 1879. Il nome completo risulta essere: "Giorgio Guido" .Secondo altra fonte risulta nato il 24 aprile 1796.Partecipò alle cinque giornate di Milano


E veniamo al secondo oggetto, ovvero le tre pagine estratte dalla Raccolta Ufficiale dei Decreti del Regno d'Italia, edita dalla stamperia Reale.
Contengono il regio decreto umbertino numero XXXI con il quale viene ufficializzato in data 30 gennaio 1881 (con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Regno in data 16 marzo 1881) la costruzione in corpo morale dell’asilo di San Fiorano denominato Asilo Infantile Giorgio Pallavicino Trivulzio, in onore del Marchese che, nel testamento olografo, come citato dal decreto medesimo, con un lascito di 300 Lire l'anno, ne finanziò la costruzione.

Queste tre pagine rappresentano cioè l'atto di nascita dell'asilo infantile che io stesso ottant'anni più tardi ho felicemente frequentato e del quale ho un caro seppur vago ricordo.


Consigli per gli acquisti

Il mese di febbraio è stato un mese di lettura intenso, che mi ha regalato il piacere di cinque libri veramente molto belli; in realtà 4 libri più un racconto breve, anzi brevissimo, ma di una intensità estrema, quasi dolorosa.

Yossl Rakover si rivolge a Dio
di Zvi Kolitz
Adelphi
Breve racconto di 18 pagine struggenti più ca 50 pagine tra note e commenti del curatore Paul Badde ed un breve saggio di Emmanuel Levinas, filosofo ebreo conterraneo dell'autore (50 pagine di per se utili solo a dare un contesto storico e un volto a questo misterioso autore ed al suo sconosciuto unico prezioso scritto). L'autore, Zvi Kolitz, è un ebreo lituano, giornalista ed agente segreto, poco più che trentenne quando scrisse questo autentico piccolo gioiello della letteratura mondiale.E' un racconto autoreferenziale che inizia informando il lettore che le righe che lo compongono sono state trovate scritte su fogli di carta ben sigillati all'interno di una bottiglia ritrovata tra cumuli di macerie e di ossa umane carbonizzate nel ghetto di Varsavia. Struggente messaggio, quasi un testamento in punto di morte, di un ebreo di nome Yossl Rakover, che si da fuoco come ultimo disperato atto di una vita disperata, durante il bombardamento del ghetto, dopo che l’uomo aveva appena perso, uno dopo l’altro, nel giro di pochi mesi la moglie ed i 5 figli. “Il sole probabilmente non sa quanto poco mi dispiaccia non poterlo mai più rivedere” è l'epilogo più triste ed atroce che si possa immaginare della vita di un “uomo”. Impressionante il racconto della fuga nei boschi prima di tornare nel ghetto. “Mi vergognavo davanti al cane di non essere un cane, ma un uomo” è la situazione di degrado e la triste consapevolezza di tale degrado. Il racconto si conclude con un lamento funebre emozionante e lucido al tempo stesso. “Muoio...........colmo d'amore per Dio, ma senza rispondergli ciecamente amen”.Un ossimoro dunque, la "fede consapevole", di Yossl, affidarsi ma cercando di capire perchè.Ringrazio Mauro Corona (che ci aveva incuriosito definendolo “il libro più bello del mondo”) ed un amico che lo ha scovato per primo in una libreria e me lo ha prestato (adesso me lo sono comprato anch’io perché un libro come questo non poteva "fisicamente” mancare nella mia biblioteca personale).

L'infinito viaggiare
di Claudio Magris
Oscar Mondadori
A leggere Magris è forte la sensazione di grande abbuffata. Cento pagine sono un distillato di mille, tanto è enciclopedico il suo sapere, il suo modo di procedere, una scoperta dietro l'altra, tra dotte citazioni e sagaci commenti. Questo libro non fa eccezione. Magris riesce ad affabulare persino con la prefazione, vero piccolo gioiello, paragonando appunto il prologo di un libro ad un viaggio che è di per se “un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l'angolo” (chapeau!! visto che il libro parla in senso sia reale che metaforico di viaggi). Bellissima la disquisizione su ciò che motiva il viaggiare, ovvero non l'arrivare, ma arrivare il più tardi possibile, o non arrivare possibilmente mai. Il richiamo a Karl Rahner, teologo “in cammino” chiarisce il pensiero. Solo con la morte cessa lo “status viatoris” dell'uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore. Onde per cui viaggiare è anche differire il più possibile l'arrivo. Ecco allora perché il libro è dedicato “.......ai compagni di viaggio che ho amato e che sono già arrivati”. La cosa bella, con una simile “prefatio”, è che il libro, da qui in poi, parla di vita! Magari di sofferenza, magari di dolori, ma anche di gioie e di bella vita vissuta. Racconto a tappe, piccoli grandi episodi legati al viaggiare “fisico” di Magris in tutto il mondo, peraltro, dice lui, non dissimile da quello “virtuale”, ad esempio da una stanza all'altra della propria abitazione, “spedizione (comunque) non meno avventurosa ne meno ricca di incanti e di rischi”. Tanti quadri, legati da una contiguità geografica, ma godibili uno per uno, separatamente. Uno per tutti ambientato in una sala del monastero di Pedralbes a Barcellona, protagonisti due uomini, padre settantacinquenne e figlio, di età indefinita, affetto da sindrome di Down. Il padre che, tiene per mano il figlio e gli parla con amore dei quadri che scorrono lentamente davanti ai loro occhi. Apoteosi, davanti ad un Velasquez! Ma mi fermo qui. Queste 43 righe, poco più di una pagina, vanno letti con sacro rispetto, in un intimo silenzio, accompagnati dal linguaggio affabulatorio di Claudio Magris!

Gli altri tre libri di febbraio sono legati da un fil rouge che in qualche modo li accomuna, che non a caso è diventata la mia passione degli ultimi anni, ovvero i libri, l'amore per i libri e per il luoghi dove vengono conservati. Tutti e tre hanno a che fare pur se in modo diverso con la biblioteca, il sancta sanctorum del sapere umano. Nelle parole di Manguel ogni biblioteca “evoca il suo fantasma oscuro; porta con se, nella sua ombra, una biblioteca di assenze. Ogni biblioteca accoglie e rifiuta. Ogni scelta ne esclude un'altra, quella non fatta”.

La tredicesima storia
di Diane Setterfield
Mondadori Editore
Meraviglioso romanzo un po' noir, scritto divinamente. La figlia del proprietario di una biblioteca antiquaria è chiamata, ghostwriter antelitteram, a scrivere la biografia della più famosa scrittrice del momento, Vida Winter, scrittrice con decine e decine di libri al suo attivo, tutti best seller, intreccio di storie reali e inventate. Intrigante, tra questi, un libro in particolare, intitolato “13 racconti”, libro che si legge d'un fiato tanto è emozionante, libro con finale a sorpresa, ovvero con la parola fine scritta al termine del dodicesimo racconto! La storia delle storie, la tredicesima, non c'è. Di fatto è la storia ancora da scrivere, quella della vita della scrittrice, la sua biografia che si scoprirà essere l'apoteosi di tutte le storie scritte, la più complessa ed emotivamente coinvolgente. Non sarà scritta da Vida Winter, ma dall'umile bibliotecaria.Potrei sbagliarmi ma Diane Setterfield, qui alla prima esperienza letteraria, ci sorprenderà presto con altre meraviglie.

La biblioteca di notte
di Alberto Manguel
Archinto Editore
Mi sento di ringraziare personalmente coloro che hanno sostenuto economicamente l'edizione di questo libro che altrimenti, per dirla con l'autore stesso “languirebbe ancora nel futuro”.E sarebbe stato un vero sacrilegio!E' un libro sui libri ed in particolare sui luoghi consacrati ai libri, le biblioteche. Scritto con la passione e la competenza di un saggista dotto ma con la capacità di un romanziere nato, in grado di rendere leggero ed accattivante un argomento serio ed importante. Intanto il ruolo del lettore nei confronti del libro, ovvero “ogni lettore esiste per assicurare ad un certo libro una piccola immortalità. La lettura è, in tal senso, un rito di rinascita”. In secondo luogo il ruolo del libro nei confronti del lettore.“Habent sua fata libelli” ovvero i libri hanno il loro proprio destino. Manguel per i suoi dice: “alcuni dei miei libri hanno atteso mezzo secolo per approdare a questo sperduto angolo della Francia dove, a quanto pare, erano destinati”. E poi il ruolo della biblioteca nei confronti sia del libro che del lettore, che fa amare Manguel quando dice che “sfogliare un libro o aggirarsi tra gli scaffali è un aspetto intimo della lettura”. E' vero, perlomeno è ciò che capita anche a me. Il racconto delle biblioteche visto sotto diverse angolature: mito, ordine, spazio, potere, forma, laboratorio, immaginazione etc. si conclude con la storia della biblioteca personale dell'autore. “Ho trovato i miei libri, ho trovato il posto dove sistemarli, ho trovato la pace in un luogo illuminato nell'oscurità all'esterno”. Quindi, come disse Penelope Fitzgerald, se la storia è iniziata con un ritrovamento “la mia storia deve finire con una ricerca. Ma cosa cerco? Non cerco rivelazioni di sorta. Non cerco una conoscenza, oltre a quella che in qualche modo segreto già ho. Non cerco un'illuminazione, a cui non posso ragionevolmente aspirare. Non cerco esperienza, perché alla fine posso essere consapevole soltanto di ciò che è già in me. E allora, giunto ormai alla fine della storia della mia biblioteca, che cosa sto cercando? Consolazione, forse. Forse consolazione.”
La biblioteca sul cammello
di Masha Hamilton
Garzanti
Ho comprato questo libro dopo aver letto quello di Manguel nel quale veniva accennato un episodio simile a quello raccontato qui. Manguel parla di “Biblioburro” ovvero di biblioteche itineranti a mezzo asini in Colombia. I libri vengono portati a dorso d’asino nei più sperduti villaggi del paese, lasciati per un certo periodo e poi recuparati per essere sostituiti da altri. Solo una volta un libro non è stato restituito, dice Manguel, era una traduzione spagnola dell'Iliade. Motivo, era troppo simile alla storia del loro paese, guerra, divinità irascibili, destino degli uomini etc. per lasciarselo portare via.Quando aggirandomi tra gli scaffali di una libreria di Milano ho visto “La biblioteca sul cammello” ho dovuto comprarlo. Ed è stato uno degli acquisto d'impulso più sensati degli ultimi anni, anche se non sapevo nulla dell'autrice. Un linguaggio dolce, metaforico, quello parlato dalla gente del bush. La saggezza che viene dalla fatica del vivere. Il conflitto costante tra tradizione e voglia di progresso. Il ricorso ad immagini ancestrali. Un libro pieno di poesia: "un'ondata di calore gli saettò dalle dita dei piedi alle guance per poi fermarsi, come acqua, appena dietro agli occhi". Se questo non è un modo poetico per definire la commozione, il pianto trattenuto!